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In Italia ci sono 35mila Charlie, ma solo il 15% accede a cure palliative specifiche

Luca Manfredini è il referente per la terapia del dolore e le cure palliative pediatriche dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova. Soltanto ieri ha accompagnato alla morte un neonato di due mesi e mezzo, malato di SMA: «il nostro compito è aiutare i genitori a fare la scelta migliore per il bambino, senza guardare ai costi». In Italia sono 30-35mila i bambini con una patologia inguaribile e un bisogno assistenziale complesso, come Charlie, che hanno diritto a cure palliative precoci che assicurino loro la miglior qualità di vita per tutto il tempo che avranno da vivere: solo il 15% di essi accede a cure su misura

di Sara De Carli

«Charlie non è l’unico, bambini con patologie inguaribili e necessità di una assistenza complessa ce ne sono molti, anche in Italia. Il nostro compito, nei loro confronti, è garantire loro la migliore qualità di vita possibile e poi il migliore accompagnamento alla morte». Luca Manfredini è un medico palliativista dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, referente per la terapia del dolore e le cure palliative pediatriche. Soltanto ieri ha accompagnato alla morte un neonato di due mesi e mezzo, malato di SMA: «i suoi genitori avevano chiesto che per lui ci fosse solo accompagnamento, mentre in reparto ci sono bambini in situazioni analoghe ma ventilati. Per ciascuno si tratta di aiutare i genitori a fare la scelta migliore per il paziente, cercando di non condizionarli. Io come medico posso avere delle opinioni, ritenere che per un bambino valga la pena la ventilazione e per un altro meno e posso concepire anche che alcuni tecnici – nel caso di Charlie come in altri che vediamo spesso nel nostro lavoro – possano sostenere che si tratta di accanimento… noi che ci occupiamo di cure palliative abbiamo il compito di trovare un equilibrio, di bilanciare queste due posizioni», afferma Manfredini.

Soltanto ieri abbiamo accompagnato un neonato di due mesi e mezzo, malato di SMA, i suoi genitori avevano chiesto che per lui ci fosse solo accompagnamento, mentre in reparto ci sono bambini in situazioni analoghe ma ventilati. Per ciascuno si tratta di aiutare i genitori a fare la scelta migliore per il paziente, cercando di non condizionarli.

Luca Manfredini

È un punto decisivo, chissà se nella vicenda di Charlie è stato fatto ogni sforzo possibile in questo senso. «Noi dobbiamo aiutare i genitori a scegliere, che significa prospettare con chiarezza i benefici degli interventi ipotizzati e il loro peso, la loro gravosità sul bambino e sulla vita della famiglia, questi bambini, a domicilio, richiedono otto ore al giorno per fare procedure di assistenza», ribadisce Manfredini, «dove con gravosità non intendo quella economica, quella non deve essere mai fatta pesare». E ancora chissà se davvero nemmeno l’ultimo desiderio dei genitori di Charlie, quello di portare a casa per una volta il loro piccolo, non poteva davvero essere accolto: «l’OMS dice che dove possibile le cure palliative devono essere gestite a domicilio, la prospettiva italiana va molto in questa direzione, anche l’hospice è per favorire la gestione a domicilio. Non so quali siano state le motivazioni per cui la richiesta dei genitori di Charlie non sia stata assecondata, noi dove è possibile favoriamo la possibilità che l’ultimo momento sia il più intimo possibile», conclude Manfredini.

Questo non vuole essere un pezzo su Charlie Gard, per dire se sia giusta o sbagliata la scelta che i sanitari e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno fatto. Ogni caso è unico e particolare. Ci sono mamme con figli in condizioni analoghe a quelle di Charlie, che hanno scritto che «nessuno sa dirci ora quanto vivrà, nessuno si lancia più in previsioni sul futuro, ma la sua vita è stata rispettata così com’era. E il suo presente è bellissimo» e altre invece hanno affermato che «si tratta di dignità. Di rispetto. Di accettazione. L'amore di un genitore in queste situazioni è disperato. Incosciente. E irrazionale. L'amore qui è accecato da rabbia e da disperazione. Affrontare una diagnosi e una malattia congenita e/o genetica di determinate portate, è durissima. Fa perdere ogni cognizione della realtà. La dignità di Charlie in questo caso è schiacciata dall'amore disperato dei suoi genitori. La scienza non fa ancora miracoli. Luminari di tutto il mondo hanno scritto che accanirsi su Charlie così è disumano. I nostri figli non sono nostri. Non possiamo infliggergli il nostro amore».

Questo pezzo vuole però ricordare, ancora una volta, che anche quando c’è una malattia inguaribile, anche quando la prospettiva di vita si fa breve, la vita può essere vissuta al meglio. Perché non è vero che Charlie con le cure palliative non c’entri nulla, dal momento che lui non è un malato terminale: le cure palliative non sono solo per i malati oncologici né per i soli malati terminali, non sono qualcosa che deve comparire (come accade ancora) negli ultimi 20 giorni di vita, ma devono accompagnare precocemente e in maniera flessibile un percorso, rispondendo a un bisogno clinico e insieme sociale, psicologico e relazionale. Tutti hanno il diritto di essere messi nelle condizioni di vivere al meglio la vita che resta. A maggior ragione un bambino, verrebbe da dire. Invece proprio i bambini sono i più dimenticati, perché le cure palliative pediatriche sono ancora eccezioni. In Italia i bambini come Charlie, cioè i bambini che hanno una malattia inguaribile e un bisogno assistenziale complesso e che per questo avrebbero bisogno e diritto di ricevere cure palliative sono circa 30-35mila, lo dice nero su bianco l'ultima Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 38/2010. «Solo il 15% di essi riceve oggi cure palliative pediatriche specialistiche», ammette il dottor Manfredini, «e la probabilità di riceverle varia in base all’età, è più facile che le riceva un bambino grande che non un lattante come Charlie, in base alla patologia, cioè è più facile che le riceva se ha una patologia oncologica, e in base al luogo di residenza, cioè è più facile che le riceva se vive al Nord che non se vive al Sud, benché poi ci siano rilevanti eccezioni, ad esempio la Basilicata ha una rete di cure palliative pediatriche». Il fatto che solo il 15% dei piccoli pazienti che dovrebbero ricevere cure palliative di fatto le riceva, non significa che tutti gli altri siano abbandonati: sono seguiti da un palliativista non specializzato sui bambini oppure dallo specialista della patologia, «però manca uno sguardo a 360 gradi». Ed è vero che quella delle cure palliative, pediatriche come per adulti, deve essere una "rete", però è indicativo il fatto che di hospice pediatrici in tutta Italia ad oggi ce ne siano solo quattro.

In Italia i bambini "come Charlie", che hanno una malattia inguaribile e un bisogno assistenziale complesso e che per questo avrebbero bisogno e diritto di ricevere cure palliative, sono 30-35mila. Solo il 15% di essi riceve cure palliative pediatriche specialistiche. La probabilità di riceverle varia in base all’età (è più facile che le riceva un bambino grande che non un lattante come Charlie), in base alla patologia (è più facile per una patologia oncologica) e in base al luogo di residenza

Luca Manfredini

Nel marzo 2014, quando il Belgio decise di far entrare nella propria legislazione l’eutanasia per i bambini, l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) lanciò una petizione, che diceva così: «Crediamo che tutti i bambini, ivi compreso i neonati ed i giovani, hanno diritto alla migliore qualità di vita possibile. Se sono affetti da malattie che limitano la loro speranza di vita, hanno diritto a cure palliative di alta qualità che permettono di rispondere ai loro bisogni. Crediamo che l’eutanasia non faccia parte delle cure palliative per i bambini e che non sia una soluzione alternativa alle cure palliative. È essenziale poter lavorare insieme per migliorare l’accesso dei bambini di tutto il mondo alle cure palliative pediatriche, ivi compreso l’accesso ad una gestione adeguata del dolore e dei sintomi. Chiediamo a tutti i governi di trasformare la vita dei bambini offrendo loro delle cure palliative. Questo include l’accesso a delle cure palliative nell’ambito della rete dei servizi sanitari per bambini; l’accesso ad una gestione appropriata del dolore e dei sintomi, ivi compreso ai medicinali, per tutti i bambini; l’assistenza ai bambini ed alle loro famiglie, in modo che possano vivere la loro vita il meglio possibile e il più a lungo possibile».

La posizione ufficiale dell’ICPCN sui bisogni e i diritti dei bambini con prospettive di vita limitate (life limited and life threatened children) è stata rivista da pochissimo, nell’aprile 2017 (la trovate qui), e afferma che «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».

Foto Alex Baljan / Unsplash


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