Attivismo civico & Terzo settore

Così la Theory of Change ferma la ruota del criceto

Sempre di più bandi, istituzioni, finanziatori e società civile chiedono al Terzo settore di dare prove reali della loro capacità di generare cambiamento. Tutti però parlano di valutazione di impatto e pochi di teoria del cambiamento, che in qualche modo ne è la premessa

di Sara De Carli

6.500 kit distribuiti, 792 bambini coinvolti, 250 ore di formazione per i contadini, 10mila donne coinvolte, 3.100 bambini vaccinati… sono questi i numeri che siamo abituati a leggere nelle rendicontazioni dei progetti sociali. Ma quale cambiamento reale c’è stato nelle vite di questi bambini, di queste donne, di questi contadini grazie al progetto in questione? È questo che ormai viene richiesto alle organizzazioni attive nel sociale, dare conto dell’impatto dei loro interventi. Di valutazione di impatto si parla moltissimo, la chiedono singoli donatori, moltissimi bandi (basti pensare a quello sulla povertà educativa nella prima infanzia di Con i Bambini, i cui esiti sono attesi fra pochissimi giorni), la stessa nuova Riforma del Terzo Settore, i bilanci sociali mutano sempre più spesso in report d’impatto, molte università ne parlano nei loro corsi e master: si parla invece ancora poco di Theory of Change (Teoria del Cambiamento), che pure alla valutazione di impatto è strettamente collegata.

Chistian Elevati è esperto in Social Impact Management & Evaluation, Theory of Change e Social Innovation, terrà un laboratorio sulla Theory of Change per gli studenti della laurea magistrale in Cooperazione Internazionale dell'Università Cattolica di Milano e dal 20 al 22 ottobre salirà a Cogne con dieci professionisti senior di organizzazioni non profit, dove fra camminate sui sentieri del Gran Paradiso, lavoro d’aula e workshop, darà un quadro teorico-pratico per valutare la propria organizzazione e pianificare l’impatto che si desidera generare (iscrizioni entro il 6 ottobre 2017, info qui).

Che nesso c’è fra valutazione di impatto e Theory of Change? Possiamo dire, per semplificare, che la valutazione deve avere a monte la progettazione del cambiamento?
Il legame tra le due è molto forte, perché la valutazione d’impatto deve misurare il cambiamento sociale che un intervento o un programma produce: però devi avere chiaro quale cambiamento stai perseguendo, dove lo stai generando, quali sono le strategie per raggiungerlo. Quando parliamo di temi sociali, parliamo di contesti complessi, con cause multilivello: qui si tratta di lavorare sul perché una strategia funziona, per raggiungere un cambiamento, e un’altra no. Serve consapevolezza, un’analisi del contesto, delle risorse, degli attori, delle strategie migliori da mettere in campo, capacità di valorizzare le expertise che l’organizzazione ha acquisito. Una volta individuati gli obiettivi di medio e lungo periodo, gli strumenti per raggiungerli e gli stakeholder vai anche a individuare gli indicatori di risultato e quindi a fare una valutazione d’impatto, ma se manca la parte precedente il rischio è che la valutazione d’impatto sia un po’ estrinseca, sterile, qualcosa che risponde alla richiesta di un bando o di un donatore, anche una moda. Ovviamente non voglio dire che non devi rispondere alle esigenze specifiche di un bando o di un donatore, ma che le organizzazioni devono avere una chiara strategia di lungo periodo per fare valutazione di impatto. Se sono già strutturate il report d’impatto è un passaggio di un percorso, altrimenti è qualcosa di strumentale o burocratico.

Un’organizzazione da cosa deve partire per utilizzare la Teoria del Cambiamento e qual è il momento migliore per farlo?
Molte organizzazioni hanno già una vision e una mission che dovrebbero definire il loro ambito di intervento e gli obiettivi di medio e lungo periodo: spesso non è così, la vision è vaga, non c’è chiarezza sulla reale mission o si punta troppo in alto – fare in modo che tutti i bambini abbiano accesso all’istruzione. Definiti gli obiettivi di lungo periodo, cosa fa la teoria del cambiamento? Va a ritroso, con un backward mapping: se quello è l’obiettivo che voglio raggiungere, quali precondizioni devo generare per avvicinarmi? Così si individuano i cambiamenti di breve periodo, come passi per arrivare agli outcome della mission. La Theory of Change è una metodologia, non deve diventare un feticcio, però negli anni ha dimostrato di essere uno strumento versatile e valido, ci sono segnali forti. Ad esempio EuropeAid dal 2016 ha modificato lo strumento di presentazione dei progetti in direzione di valutazione di impatto e ToC e anche la World Bank chiede di usare la Teoria del Cambiamento. Inizialmente richiede un investimento, ma torna moltiplicato sulla lunga durata, nella comunicazione, nel fundraising… Definire questo percorso consente di fare un’analisi organizzativa e strategica che dà senso alla valutazione dell’impatto e lo rende un modus operandi sistematico dell’organizzazione: questo è uno strumento tramite cui le organizzazioni apprendono e crescono, cercando di raggiungere i primi obiettivi di medio periodo mi sperimento, vedo se le strategie sono giuste, testo la mia strategia continuamente, diventa un sistema continuo di valutazione del mio intervento, una valutazione innestata nei processi organizzativi.

Ci sono best practice da citare?
Pochissime organizzazioni lo fanno, alcune grosse ci stanno provando ma non è questione di dimensioni, è un processo che si può scalare. Il non avere un sistema così, con una strategia chiara e un mettesi alla prova quotidianamente su obiettivi intermedi, conduce le organizzazioni a fare ciò che hai sempre fatto, ciò che è più facile fare, ciò che costa meno o ciò che è più di moda… sta succedendo a tante. Fai tot interventi, tot ore, ma non scopri mai se questo ha cambiato o no la vita delle persone, che è il motivo per cui l’organizzazione esiste. Il problema non è la cattiva volontà, il problema è che spesso le organizzazioni non hanno tempo e risorse per farlo. Se un’organizzazione è strutturata e ha obiettivi chiari, non oscilla inseguendo la moda, l’emergenza, il finanziamento del momento, ma lavora per raggiungere obiettivi chiari che sono già nella sua vision e mission. Il progetto che vai a presentare allora si inserisce in una teoria del cambiamento che hai già definito, tu sai già perché fai quella attività, come la vai a misurare: è un salto di qualità nella programmazione prima ancora che nella rendicontazione. Ma ci tengo a sottolineare, le gambe dell’intero progetto è il monitoraggio che si fa durante l’implementazione, il lavoro quotidiano che coinvolge anche partner e beneficiari, è questo che ti dà i materiali su cui si basano sia le valutazioni puntuali delle singole attività sia quelle complessive per capire se stai o no generando il cambiamento desiderato.

Ci aiuta a chiarire questo “salto di qualità”?
È tutto nel passaggio da output a outcome, dal dire quanti servizi hai erogato, quante persone hai raggiunto, quante hanno partecipato, il numero di bambini vaccinati… a dire come tutto questo ha migliorato la vita del singoli e della comunità in termini ad esempio di accesso all’istruzione o uscita dalla povertà. Ogni progetto avrà i suoi indicatori, servirà anche uno sforzo qualitativo nella definizione degli indicatori, ma questo dà spessore al lavoro, senza siamo "progettifici" che producono cose, servizi, prodotti che però non sappiamo mai davvero quanto impattano. Prima mi chiedeva se c’è un “momento ideale” per fare un ragionamento di questo tipo: direi quando fai una pianificazione strategica, triennale o quinquennale, quello è il momento per dare la cornice di senso a ciò che fai, altrimenti l’azione quotidiana rischia di somigliare alla ruota del criceto.

Photo by Josh Boot on Unsplash


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