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Siamo proprio sicuri che la crisi del welfare sia colpa degli anziani?

«La ragioneria dello Stato ci dice che "la componente di spesa sanitaria relativa ai costi sostenuti nella fase terminale della vita (death-related costs) non risulterà significativamente condizionata dall’aumento degli anni di vita guadagnati”. Forse allora il problema è l'interpretazione dei dati di noi tecnici e politici». L'intervento del direttore della Fondazione Zancan

di Tiziano Vecchiato

Alcune certezze si stanno sgretolando, altre resistono e vedremo per quanto. Ad esempio la crisi del welfare è attribuita agli anziani: vivono troppo, sono costosi, affondano la sanità. È proprio così? La RGS (Ragioneria generale dello stato) è stata lungimirante alcuni anni fa quando ha stimato l’incremento della spesa sociosanitaria per la non autosufficienza al 2060 in 1,7 punti di Pil. Poca cosa, se distribuita in tutti gli anni che ci separano dal 2060, e tecnicamente governabile. Nel suo ultimo rapporto (luglio 2017) la RGS aggiunge “si è dimostrato che una percentuale molto elevata del totale dei consumi sanitari nell’arco della vita di un soggetto si concentra nell’anno antecedente la sua morte. Ciò significa che la componente di spesa sanitaria relativa ai costi sostenuti nella fase terminale della vita (death-related costs) non risulterà significativamente condizionata dall’aumento degli anni di vita guadagnati”.

Il problema è quindi l’incapacità di “fronteggiare le tendenze espansive della domanda di prestazioni sanitarie indotte dalle dinamiche demografiche” senza “recuperare maggiori livelli di efficienza ed efficacia nell’azione di governance”. In sostanza il problema siamo noi, quella parte di noi (politici e tecnici) che affrontano problemi così impegnativi senza “visione” e troppa “razione”. Le pratiche di “razionamento” infatti ci costringono a ricevere sempre meno e a pagare sempre di più, ma accettando di veder sgretolato il sistema di fiducia necessario perché la solidarietà e la giustizia possano incontrarsi.

Bene quindi che certezze scontate vengano messe a dura prova. Su scala più piccola sta avvenendo nel dibattito tra Stefano Zamagni (sul numero di Vita di settembre) e Federico Mento su Vita.it, a proposito di metriche e metodi di valutazione. La premessa di Zamagni è forte: misurare l’impatto sociale del Terzo settore con metriche di estrazione capitalistica è come mettere vino nuovo in otri vecchi. Il sasso è lanciato e c’è futuro a disposizione per smontare credenze superate e introdurre soluzioni più capaci di misurare quello che vale veramente.


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