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Storia di Giulio, che da personal fundraiser ha già salvato la vita a otto bambini

Mission Bambini ha lanciato GivetheBeat, una campagna di crowdfunding per operare i bambini cardiopatici dei Paesi più poveri del mondo. In campo ci sono i personal fundraiser, volontari che coinvolgono la propria cerchia di amicizie e contatti per chiedere una donazione: ci mettono la faccia, forti della propria credibilità personale e diventano influencer

di Sara De Carli

Giulio Artom ha 58 anni. Vive a Milano, è sposato da 30 con Marina ed è padre di Micol, 27 anni, psicologa. Per professione è consulente aziendale in ambito gestionale e organizzativo, ma fino all’8 gennaio 2018 sarà anche personal fundraiser per Mission Bambini. Lo ha già fatto l’anno scorso e anzi, nella prima edizione della campagna di crowdfunding #GivetheBeat, Giulio è stato il personal fundraiser di maggior successo, raccogliendo oltre 9mila euro da 135 donatori: soldi che hanno permesso di salvare 6 bambini, attraverso un intervento chirurgico al cuore.

La missione di #GivetheBeat è questa: salvare bambini malati di cuore, che vivono in Paesi più poveri, dove non hanno accesso alle cure mediche e chirurgiche. Ogni anno nel mondo nascono 1 milione di bambini affetti da malformazioni congenite al cuore, di cui 800mila proprio nei Paesi più poveri: la metà di loro è destinata a non raggiungere il primo anno di vita. È per questo che nel 2005 la Fondazione Mission Bambini ha creato il programma "Cuore di bimbi", coinvolgendo medici italiani volontari e collaborando con le strutture sanitarie locali: 1.761 bambini sono già stati salvati e altri 14mila hanno avuto una diagnosi corretta. #GivetheBeat è la campagna di crowdfunding per sostenere "Cuore di bimbi". L’anno scorso sono stati raccolti 54.333 euro, con quasi settecento donatori, che hanno consentito di salvare 36 bambini. Quest’anno l’obiettivo è analogo e il contatore su Rete del Dono segna già 470 donazioni, per 28.517 euro raccolti.

Giulio Artom è volontario di Mission Bambini dal 2010, quando «a un evento di lavoro, in modo casuale, mi è capitato di ascoltare l’ingegner Modena (il presidente di Mission Bambini, ndr) che presentava la Fondazione», ricorda. «Mi colpì molto il suo approccio, il progetto mi piaceva e così ho iniziato a collaborare con loro, mezza giornata alla settimana, prevalentemente con l’ufficio raccolta fondi». Quando l’anno scorso Mission Bambini decise di promuovere la sua prima campagna di crowdfunding, Artom decise di mettersi in gioco come “heart beater”: «Mi hanno incuriosito l’idea e la modalità. Mi piacciono le sfide, l’ho presa così». Ma chi è il personal fundraiser? «È un fundraiser non professionista, tipicamente un volontario, che si muove all’interno del proprio network per raccogliere fondi per un progetto specifico», risponde Artom. In parole povere è una persona che decide di metterci la faccia, coinvolgendo le proprie cerchie di contatti personali – offline e soprattutto online – per chiedere una donazione, facendo leva sulla propria credibilità personale.

Giulio si è rivolto a tutti: amici, parenti, vicini di casa, colleghi, ex colleghi, il dentista, l’idraulico, il commercialista. «Ho utilizzato in modo massiccio i social, inviando a tutti i miei contatti Facebook, Linkedin e WhatsApp dei messaggi. Ho mandato anche mail, ho usato un po’ tutto. Quest’anno ad esempio sto inviando un messaggio mirato quando ci sono delle ricorrenze: “auguri, buon compleanno, perché non festeggi facendo una donazione che aiuti a salvare un bambino?”. Strategie? No, avevo iniziato a valutare se nelle domeniche piovose arrivavano più donazioni, ma non sono andato troppo avanti con l’analisi. Ci vuole un po’ di tempo, io approfitto tanto degli spostamenti sui mezzi pubblici, e soprattutto non aver paura di chiedere e richiedere. Mi sono dato tre volte come limite massimo, con strumenti diversi: però la timidezza non ci deve frenare, non siamo stalker. Ed è evidente che la risposta a un invito a donare cambia molto a seconda del momento in cui leggi quell’invito… Le persone che mi hanno detto “basta, non scrivermi più” sono state davvero pochissime», riflette Artom.

Quelle che invece hanno fatto una donazione a Mission Bambini attraverso il suo invito personale sono state ben 135, al di là di ogni sua aspettativa. Centotrentacinque persone che, letto il messaggio di Giulio, sono andate sulla piattaforma Rete del Dono e lì hanno fatto una donazione istantanea. In cambio, c’è una ricompensa: per la donazione di 15 euro, la cifra per una visita cardiologica approfondita, riceverai una mail dalla cardiologa che effettuerà la visita e che ti ringrazierà personalmente; per 100 euro, il corrispettivo di due giorni di degenza in ospedale per mamma e bambino, uno speciale video di ringraziamento.

«Ogni personal fundraiser partiva con un obiettivo di 1.500 euro, che corrisponde alla cifra necessaria per operare un bambino. Man mano che le donazioni arrivavano, la mia “asticella” si alzava, siamo arrivati a salvare sei bambini. Senza falsa modestia devo dire che sono stato molto orgoglioso del risultato ottenuto. Ricevere donazioni da ex colleghi di lavoro con cui non ero in contatto diretto da anni è stata una sorpresa, implicitamente significa avere persone che rinnovano la loro fiducia in te. Se decidono di donare per una causa che tu proponi, vuol dire che a quelle persone Giulio Artom ha lasciato un discreto ricordo, una fiducia che è rimasta nel tempo».

È questo il tema dirompente del crowdfunding tramite personal fundraiser: il mettere in gioco la credibilità e la fiducia personali, perché ognuno di noi mediamente è più reliable che imbroglione e ognuno di noi ha una cerchia ampia di contatti su cui può essere influencer. «Non so se questo sarà il futuro della raccolta fondi, sicuramente è uno strumento potente per un’organizzazione con un buon numero di volontari che hanno voglia di mettersi in gioco, ciascuno con il proprio network. L’unico limite è per i donatori non giovanissimi o non avvezzi a questi strumenti digitali».

Ad oggi, Giulio è già arrivato a raccogliere 3.487 euro, ma non è certo l’unico heart beater in campo. In questa seconda edizione di #GivetheBeat sono 20 le pagine dei personal fundraiser attive sulla Rete del Dono per #GivetheBeat, di cui cinque sono team della Fondazione Mediolanum: 29 volontari di Fondazione Mediolanum, fra i quali fra i quali il Presidente Sara Doris e il Direttore Marketing, Comunicazione e Innovazione di Banca Mediolanum, Oscar Di Montigny ci hanno messo la faccia. Per ogni euro raccolto, Fondazione Mediolanum raddoppierà le donazioni, fino a un massimo di 20.000 euro. Per Lucia Pizzini, Digital Strategist di Mission Bambini, «la caratteristica vincente di questa campagna è che ogni personal fundraiser è ingaggiato per salvare la vita di un bambino, impegnandosi a raccogliere 1.500 euro sanno che quei soldi faranno davvero la differenza per un bambino, perché potrà essere operato al cuore. Si ha la percezione concreta di quanto questo impegno personale possa fare la differenza, tant’è che alcuni team hanno scelto come nome della propria iniziativa quello di un bambino, Prince, Agon, Eldi… Ovviamente la lista definitiva dei bambini da operare è in continuo aggiornamento e viene definita nell'arco delle singole missioni operatorie, però questi bambini li abbiamo incontrati tutti e sappiamo che senza il nostro intervento non ce la faranno».

Non si tratta di lasciare le piazze reali per andare in quelle virtuali: «sono modalità che si affiancano, non alternative, sono esperienze diverse con logiche diverse. Certamente i costi della campagna di crowdfunding per l’organizzazione sono praticamente nulli, a fronte di una raccolta fondi importante. Nel fundraising del futuro tutte le modalità devono imparare a viaggiare insieme e a dialogare», conclude Pizzini.

La foto di Giulio Artom è di Roberto Morelli, quelle del progetto Cuore di bimbi di Simone Durante


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