Cooperazione & Relazioni internazionali

Mario Giro: «Le urgenze? Svuotare i centri di detenzione libici e garantire vie legali verso l’Europa»

Intervista al viceministro di Affari esteri e Cooperazione internazionale sui punti caldi delle iniziative italiane ed europee nel Continente africano. "Al summit di Abidjan ho visto finalmente i leader africani, scossi dal video della Cnn, ascoltare i loro giovani che chiedono migliori condizioni in patria per non partire. Mentre sul rispetto dei diritti umani da parte della Marina libica, anche dopo gli ultimi attacchi alle ong, ci siamo fatti sentire"

di Daniele Biella

“Tra i Paesi africani c’è finalmente un cambio di passo, una spinta verso una presa di coscienza collettiva: bisogna svuotare la Libia dalle centinaia di migliaia di persone finite nella rete dei trafficanti, sulla costa come nel deserto. E bisogna farlo subito”. Quando raggiungiamo Mario Giro, viceministro di Affari esteri e Cooperazione internazionale, non è ancora passata l’eco dell’appuntamento di qualche giorno prima ad Abidjan, capitale della Costa D’Avorio: in occasione di Med dialogues, le nazioni africane ed europee si sono trovate a discutere direttamente sui temi urgenti che gravitano attorno al mar Mediterraneo. Sono partite dalle condizioni di vita nei rispettivi Paesi dei giovani africani, che rappresentano più della metà della popolazione totale del Continente, per arrivare al dramma delle migrazioni forzate e dello sfruttamento schiavistico, come documentato di recente dall’emittente televisiva Cnn. Iniziando da quanto emerso ad Abidjan, dove l’Italia ha avuto un importante – e inedito – ruolo centrale nelle discussioni, Vita.it ha chiesto al viceministro Giro chiarimenti anche su quanto si sta facendo in merito al discusso accordo tra Italia e Libia, alla luce degli ultimi fatti accaduti nel Meditteraneo come il comportamento negativo del personale della Marina libica lo scorso 6 novembre verso le persone recuperate in mare e l’ong che stava cercando di soccorrerli.

Al summit di Abidjan l’Italia era in prima linea. Cosa è cambiato rispetto al passato?
L’Italia è tornata a essere uno dei Paesi a cui il continente africano guarda con interesse concreto. La spia più evidente di questo cambio di approccio è il fatto che la secondo leader europeo a prendere la parola, dopo l’apertura dei lavori del premier francese Macron, è stato il nostro primo ministro Paolo Gentiloni, ancora prima di Angela Merkel. Ciò accade perché da qualche anno stiamo investendo profondamente verso la società africana, in particolare sullo sviluppo del lavoro giovanile. Lo dicono i dati Osce: l’Italia nel 2016 è stato la terza nazione al livello mondiale che ha investito di più in Africa, alle spalle di Cina ed Emirati arabi uniti. Solo un paio di anni prima eravamo oltre il decimo posto. Invece oggi, soprattutto nell’Africa Subsahariana, le imprese pubblico-private sono molto presenti, comprese Eni ed Enel. A questo si aggiunge la spinta italiana nel promuovere il Migration compact (un “patto socio-economico” tra Unione europea e Stati africani per il controllo dei flussi migratori, ndr) che è arrivato a 44 miliardi di investimenti Ue nel continente e un ulteriore apporto di 40 miliardi per l’anno prossimo che porta così il totale a eguagliare la cifra delle rimesse che gli emigrati africani inviano ai parenti rimasti in patria. Non è una partita facile, con tutte le complessità e le resistenze di molti leader africani che vedono le rimesse come uno strumento facile per non dovere prendere iniziative proprie per investire sul futuro delle proprie società. Ma che le cose stiano finalmente cambiando lo si è visto apertamente in questo summit, anche alla luce di un recente evento sconvolgente che ha aperto gli occhi a tutti.

Si riferisce al video della giornalista della Cnn che documenta la tratta di schiavi in pieno 2017?
Sì. Quel video ha avuto un impatto fortissimo sui lavori e sulle decisioni da prendere per l’immediato futuro. Le immagini della vendita all’incanto di giovani dell’Africa centrale da parte di persone dello stesso continente ha provocato reazioni inaudite perché ha toccato un nervo umano che nemmeno le morti in mare, nel deserto e le violenze dei centri di detenzione avevano toccato. Migliaia di giovani si sono riversati nelle piazze in Ghana, Nigeria, Senegal, Costa D’avorio, Somalia per chiedere conto ai loro leader. Che si sono dovuti impegnare, perché direttamente responsabili nel non riuscire a dare un futuro ai proprio giovani che non hanno altra strada se non il darsi in pasto ai trafficanti di esseri umani. Per questo siamo oggi in un momento importante, perché quegli stessi Stati si stanno organizzando per riprendere i propri connazionali. Svuotare i campi di detenzione libici illegali è la priorità per tutti, perché oggi non c’è nulla al mondo peggio di quanto sta accadendo in quei luoghi.

Si parla di 700mila persone detenute lungo la costa tra centri illegali e gestiti dalle autorità libiche, e 500mila nei vari tratti di deserto a sud del Paese, quindi almeno 1,2 milioni di persone. Farli tornare al loro Paese è urgente per sottrarli alle violenze, ma una volta lì che faranno?
Tornati nei propri Paesi devono potere incidere in quei luoghi, per questo è stato chiesto come non mai un impegno forte e ufficiale ai leader africani a tutela del futuro dei giovani, in cambio del sostegno politico ed economico. Detto questo, è chiaro che tutto non si risolve con i rimpatri perché la sfida delle migrazioni è epocale e si deve parlare anche di diritto alla mobilità, apertura delle frontiere e soprattutto di riapertura più consistente di vie legali per arrivare in un altro Paese, oltre all’esperienza positiva ma comunque ridotta che stiamo portando avanti con i Corridoi umanitari, promossi da Comunità di Sant’Egidio, Tavola Valdese e Fcei con la collaborazione dei ministeri di Interno e Affari esteri.

L’Unione europea, oltre a non adottare corridoi umanitari nonostante sia stato più volte chiesto sia dal Governo italiano che dalla società civile, continua nella sua incapacità di innescare meccanismi di solidarietà collettiva e le decisioni di “chiusura” dei singoli Stati, in particolare a Est, continuano a prevalere, causando morti e sofferenze. L’ultima vittima aveva solo sei anni, si chiamava Madina Husein, bambina afghana investita da un treno il 21 novembre 2017 dopo essere stata respinta con la famiglia dalla polizia croata al confine con la Serbia. Vede vie d’uscita?
Vedo che, pur nella consapevolezza che molti Stati rimangono sulle loro posizioni, ad Abidjan anche su questo tema si sono fatti piccoli ma significativi passi avanti. Per esempio, proprio l’Ungheria e la Repubblica Ceca ci hanno contattato con la volontà di dare fondi per il miglioramento delle condizioni del continente africano. L’Ungheria attraverso l’adesione al Fondo fiduciario d’Emergenza Ue sulle cause profonde delle migrazioni in Africa, la Repubblica Ceca stipulando una collaborazione bilaterale direttamente con il governo italiano proprio alla luce della nostra presenza là. Si tratta di soldi, non di solidarietà, è vero. Ma è la prima volta che accade, e la vedo come una prima spinta a una presa di coscienza che fino a ieri non c’era.

Intanto, il Parlamento europeo da una parte riesce a promuovere la riforma del discusso Regolamento di Dublino su richiedenti asilo, ma dall’altra non riesce a risolvere il dramma del sovraffollamento negli hotspot delle isole greche e sta discutendo una proposta della Commissione europea orientata a espandere il modello di collaborazione con la Turchia ad altri Paesi terzi considerati "sicuri", ovvero rimandare i migranti in nazioni da cui sono anche solo passati se in quella di origine è impossibile il rimpatrio…
Lo stabilire a priori una lista di paesi terzi sicuri non mi convince, perché la condizione di tale Paese, soprattutto in alcune aree geografiche, può cambiare molto presto. Il principio di fondo è che, ancora prima di parlare di diritti e valori, non si può giocare a “scaricabarile” con le persone, cercando il miglior modo per liberarsene. Questo atteggiamento non fa onore e non è lungimirante. Torno a battere il chiodo sul tema dell’apertura di vie legali perché è il tema centrale, che permette di non abbassare ancora di più il livello di rispetto dei diritti umani.

A proposito di diritti umani, veniamo alle relazioni dirette tra Italia e Libia: nelle ultime settimane l’accordo in vigore dall’estate 2017 è stato criticato proprio per l’inaffidabilità della controparte libica. A che punto è il bando che avete promosso per fare operare le ong italiane in Libia e come viene “difesa” tale scelta dalle critiche?
Al bando hanno aderito diverse organizzazioni non governative (sette in tutto con cinque progetti, la lista in questo articolo di Vita.it), ora stiamo valutando modi e tempi per farle entrare in azione ma spero vivamente che ciò accada anche prima del prossimo Natale. Altre ong hanno rifiutato di aderire: è una scelta totalmente legittima così come il dibattito che si è creato nelle settimane in cui il bando è stato attivo prima della scadenza del 29 novembre 2017. Ad agosto, una volta stipulato l’accordo Italia-Libia, ci siamo resi conto che doveva cadere ogni alibi: qualcosa andava comunque fatto per rendere un po’ più sostenibile una situazione che sappiamo essere drammatica. Abbiamo così deciso di fare di tutto per aiutare chi possiamo raggiungere, in questo caso i tre centri selezionati nel bando in cui le ong andranno ad agire per migliorare le condizioni dei migranti presenti.

Agosto è stato anche il mese in cui, oltre agli attacchi mediatici e politici in Italia, le ong in mare hanno dovuto far fronte a ripetute intimidazioni della Guardia costiera libica in acque internazionali. Poi, lo scorso 6 novembre, è avvenuto il naufragio documentato dalla nave di Sea-Watch (si legga il racconto-appello del volontario italiano dell’ong, Gennaro Giudetti) con video e audio in cui è evidente il comportamento violento del personale libico sullo scenario, nonostante l’ulteriore presenza della Marina militare italiana e francese. Dopo quell’accaduto avete chiesto conto alle autorità libiche?
Sì, l’abbiamo fatto. Già durante la formazione del loro personale dopo avere consegnato le navi per il pattugliamento, e ancora di recente dopo gli ultimi fatti, anche io stesso ho chiesto ai libici di essere più umani possibile. C’è da dire che loro considerano acque territoriali quelle che vengono definite internazionali, già dai tempi di Gheddafi. Detto questo, voglio essere chiaro: sappiamo che siamo di fronte a una situazione molto sui generis nell’avere a che fare con loro, perché si tratta di “militari” formati in poco tempo. Penso, comunque, che il vero problema siano i centri di detenzione più che quanto accade in mare: lì i numeri sono molto superiori e soprattutto il fatto che rimangano detenuti senza essere liberati mi lascia perplesso e preoccupato. Penso che alla luce degli ultimi fatti e dopo Abidjan siamo arrivati a un punto fondamentale: se si riesce a normalizzare la situazione dei centri di detenzione si potrà riprendere un vero negoziato con la Libia. Che deve però avere alla base un accordo politico tra le fazioni (Serraj, presidente del Gna, Governo di accordo nazionale, il generale Haftar e le varie milizie, ndr) e che ancora non c’è. Il problema è che senza questo accordo politico tutto quello che abbiam costruito non regge.

Per quanto riguarda la fuorviante ondata mediatico-politica di criminalizzazione delle ong, quando se ne uscirà?
È una cosa di cui mi rammarico il vedere che le organizzazioni non governative rimangono indiscriminatamente sotto attacco. In particolare a livello politico, dove oramai la questione è entrata in piena polemica elettorale e quindi non se ne uscirà fino alle prossime lezioni. Il mio invito è alle forze democratiche del paese e alla società civile affinché rimangano più attente possibile sul tema, rispondendo colpo su colpo a questa criminalizzazione.

Foto di copertina (Daniele Biella, settembre 2017): persone a bordo della nave Aquarius dell'ong Sos Mediterranée dopo essere state salvate scrivono sulle magliette ringraziamenti e frasi motivazionali per essere riusciti a venire via dai campi di detenzione libici ed essere sopravvissuti al viaggio nel mar Mediterraneo.


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