Cooperazione & Relazioni internazionali

Ong in Libia, tra tutela dei diritti minimi e resilienza

Intenso convegno a Milano alla presenza di cooperanti, psicologi, ricercatori e un criminologo per fare il punto sullo stato dell'arte dell'intervento di tre ong - Albero della Vita, Cefa e Cir - nel campo di prigionia per migranti di Tarek al Matar. Vita.it era presente, ecco il resoconto

di Daniele Biella

“Ci deve essere un cambiamento, e noi vogliamo fare parte di questo cambiamento”. E’ chiaro Ivano Abbruzzi, presidente di Fondazione Albero della Vita, quando prende parola al termine di una mattinata per addetti ai lavori dedicata a quello che stanno facendo tre ong italiane in consorzio (Albero della Vita, appunto, con Cefa e Cir) nel campo di prigionia governativo libico di Tarek al Matar, dove attualmente sono detenute 1600 – 85% uomini, anche minorenni – persone la cui colpa è non avere documenti validi per rimanere in Libia e, in molti casi, avere pagato trafficanti per una traversata verso l’Europa poi finita con il respingimento da parte delle autorità navali libiche. “La cooperazione delle ong in Libia a tutela dei diritti umani dei migranti e delle comunità ospitanti” è il titolo del convegno ospitato questa mattina dall’Unità di ricerca sulla resilienza Rires dell’Università Cattolica di Milano che è partner dell’iniziativa in atto in Libia su fondi ministeriali erogato dopo un bando di Aics, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Distribuzione di generi alimentari e non, formazione degli operatori locali sulla resilienza post trauma e attività ludiche e psicologiche con mamme e bambini sono i settori di intervento dei cooperanti delle tre ong e di due organizzazioni partner locale, Essefa e Iocs. Azioni circoscritte che però “ci permettono di essere presenti, e la nostra presenza è importante per riuscire ad aumentare il rispetto dei diritti umani dei detenuti, che ora è sicuramente sotto gli standard internazionali”, spiega Joanne Al Himyary, vice rappresentante Paese del Cir in Libia, che nel suo intervento offre anche un’utile cartina dei 33 centri di detenzione per migranti ora attivi nel Paese nordafricano, gestiti dal Dcim, Dipartimento governativo libico di contrasto all’immigrazione irregolare. Eccola.

Sono 19 (tra cui i tre oggetto del primo bando Aics) i campi frequentemente visitati dall’Alto commissariato dell’Onu, Unhcr, e altre organizzazioni umanitarie, 13 quelli in cui l’accesso è permesso ma in modo meno continuo, 4 quelli non accessibili “per ragioni di sicurezza”. La maggior parte dei centri è sulla costa, in numero minore nell’entroterra più vicino ai confini terrestri, in particolare Niger, Ciad e Algeria. “A Tarek al Matar quello che possiamo vedere è la mancanza di adeguate porzioni di cibo, medicine, materiale igienico-sanitario e anche di advocacy, ovvero qualcuno che affianchi le persone detenute nel far valere i loro diritti minimi”, spiega Al Himyary. “E’ chiaro che più noi operatori umanitari riusciamo a operare nel campo, più le condizioni delle persone detenute possono migliorare ed evitare l’aggravarsi della situazione”. Un aumento della sicurezza che da solo non basta “ma che deve essere associato ad azioni durevoli in cui si curano sia le condizioni dei migranti – verificando se può esserci un ricongiungimento familiare altrove oppure, nei casi più drammatici, il rimpatrio al Paese d’origine o il ricollocamento in un paese di passaggio come il Niger – sia della popolazione locale, oggi in una grave situazione socioeconomica”.

Un’altra parte molto concreta del convegno è stata dedicata al lavoro psicologico sulla resilienza: “in soli tre mesi di attività vediamo i primi segni tangibili del lavoro di formazione degli operatori locali, che poco alla volta riescono a ottenere la fiducia delle madri e dei bambini traumatizzati dal viaggio migratorio con cui lavoriamo nel campo”, indica Francesca Giordano, docente di Psicologia infantile alla Cattolica e membro del Rires. È lei che coordina il team di lavoro su Tarek el Matar, che viene svolto in uno Spazio a misura di bambino allestito in un container a ridosso del centro affiancato da uno spazio verde in cui potere svolgere semplici attività di gioco infantile.

Il focus della presa in carico del bambino non si fa sulla grandezza della sua ferita, del suo trauma”, continua Giordano, “piuttosto si lavora sulla parte sana del corpo, sulle risorse che lui ha dentro di sé per una trasformazione, analoga a quella che nell’ostrica tramuta un granello di sabbia in una perla”. All’inizio è difficile e la diffidenza è al massimo proprio per il vissuto violento alle spalle, “ma poco alla volta le cose cambiano”. Il lavoro psicologico deve essere molto performante, perché a causa delle dinamiche di spostamento delle persone tra i vari centri e verso diverse destinazioni accade che nel giro di poco tempo i bambini che si stavano seguendo non sono poi più presenti nel campo. “Gli operatori fanno del loro meglio, anche provando in alcuni casi a coinvolgere le guardie: è successo che qualcuno di loro sia passato dal disinteresse a un’interazione”.

Il contesto in cui si muovono gli interventi delle ong, vale la pena di ribadirlo, è drammatico. In una Libia in preda al caos istituzionale e al controllo di ampie zone da parte di milizie armate paramilitari, le sorti dei migranti provenienti da altre nazioni occupano gli ultimi posti dell’agenda politica e da qui si può tentare di leggere l’inaccettabile immagine di questi centri di detenzioni, in cui spesso le persone sono ammassate in grandi capannoni senza vere e proprie finestre, in condizioni disumane. “E’ necessario fare ogni sforzo per accrescere nella comunità libica la consapevolezza di quanto sta accadendo, e per fare questo serve un impegno forte internazionale”, aggiunge Raoul Mosconi, membro del consiglio di amministrazione dell’ong Cefa. La presenza attuale dell’Onu risulta esigua rispetto a quanto sarebbe necessario per “un intervento inderogabile”.

Ad allargare l'orizzonte dell'incontro a livello geopolitico sono intervenuti anche Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea all'Università di Macerata e autrice del libro 'Incognita Libia' (Franco Angeli 2017), Luca Ciabarri, ricercatore dell'Universita degli Studi di Milano, Pietro Massarotto, presidente dell'associazione Naga, Stefano Torelli, ricercatore associale di Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale e Silvio Ciappi, criminologo che ha passato un breve periodo proprio nel campo di prigionia per intervistare alcune persone detenute. "Bisogna smetteral con gli interventi unilaterali dei singoli Paesi in Libia, è ora che mi muova l'Unione Europea o l'Onu in modo concertato", ribadisce Mercuri, mentre Ciabarri paragona l'attuale situazione libica a quanto sta accadendo da decenni in Somalia: "c'è un'economia di guerra in cui chi gestisce il mercato nero – che sia di petrolio, droga o esseri umani – interagisce in fusione con gli attori istituzionalio creando 'con-fusione', generando ambiti ambigui in cui l'illegalità si insinua ovunque". Ancora, Massarotto fa leva sulla storia recente dell'Unione europea in termini di flussi migratori: "si assiste a una logica proibizionista sui movimenti delle persone, in particolare quelli non considerati 'rifugiati' ma bollati come migranti economici. E' una 'non-strategia dal respiro corto: paga in termini di voti dato che in questi anni è utile mostrarsi contrari all'immigrazione, ma non considera che non i numeri presenti in Africa c'è una bomba migratoria che potrebbe arrivare e che comunque sia di fronte a blocchi troverà nuove rotte per arrivare dove la vita è migliore di prima". Infine, Torelli concentra l'attenzione sul Niger, il Paese più 'di passaggio' dei flussi migratori dell'Africa Subsahariana: "in Niger la Ue non sta 'gestendo' i flussi ma li sta proprio 'bloccando', si veda l'accordo del 2015 volto a criminalizzare il traffico di esseri umani. Ma quel Paese è un imbuto molto pericoloso che potrebbe portare a nuovi fenomeni drammatici".


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