Cooperazione & Relazioni internazionali

Dopo l’odissea in mare i migranti della Sea Watch trattenuti nell’hotspot di Messina

Le persone sbarcate il 29 giugno a Lampedusa, dopo un’attesa di 17 giorni in mare a bordo della Sea-Watch 3, si sono trovate "in una condizione di trattenimento illegale" all’interno del centro hotspot di Messina. La ricostruzione di Arci, Asgi, ActionAid, Borderline Sicilia, IndieWatch, Medu e Sea Watch nel comunicato congiunto in cui hanno chiesto un immediato intervento da parte delle autorità competenti

di Redazione

Non sono bastati i 17 giorni in mare per i migranti della Sea Watch 3 che si sono trovati per giorni «in una condizione di trattenimento illegale all’interno del centro hotspot di Messina». In un comunicato congiunto Arci, Asgi (Associazione per gli studi giuridici per l’immigrazione), ActionAid, Borderline Sicilia, IndieWatch, Medu (Medici per i diritti umani) e Sea Watch hanno chiesto alle autorità competenti: «l’immediata liberazione dei cittadini stranieri trattenuti illegalmente all’interno del centro hotspot di Messina; informazioni chiare e pubbliche in relazione alla condizione giuridica e alle procedure a cui sono sottoposti i cittadini stranieri attualmente trattenuti nel centro hotspot di Messina; hanno invitato il Garante nazionale per le persone detenute o private della libertà personale a disporre immediate ispezioni nei centri di Lampedusa e di Messina al fine di constatare le effettive circostanze in cui si trovano le persone trattenute illegalmente e ad informarne immediatamente il Ministro dell’interno, il Parlamento e l’opinione pubblica».

Una vicenda che pone l’interrogativo su quanto avviene dopo gli sbarchi che apre si legge nel comunicato «una fase di sostanziale invisibilità, nel corso della quale vengono spesso violati i diritti fondamentali dei cittadini stranieri, a cominciare dal diritto alla libertà personale e dal diritto di asilo, entrambi di rilievo costituzionale».

Dopo lo decisione del comandante dalla Sea Watch 3 Carola Rackete di attraccare nel porto di Lampedusa e il conseguente sbarco del 29 giugno i migranti sono stati trasferiti nell’hotspot dell’isola in Contrada Imbriacola, «dove sono stati identificati e sottoposti a una particolare e ambigua forma di trattenimento fino al 4 luglio».

Qui«i cancelli dell’hotspot di Lampedusa sono costantemente chiusi e presidiati e non sussiste alcuna forma di regolamentazione dell’ingresso e dell’uscita dei cittadini stranieri. Se i cittadini stranieri chiedono alle forze di polizia e ai militari di poter uscire dal cancello, gli viene chiaramente risposto che l’uscita non è possibile. Tuttavia in alcuni casi le persone escono da fori nella recinzione, prassi conosciuta dalle autorità che generalmente non vi si oppongono. Evidentemente, i cittadini stranieri che non vogliono violare una regola che sembra implicita nella struttura del centro o che per vari motivi non sono in grado di attraversare la recinzione vivono a pieno la condizione di trattenimento. In seguito alla permanenza a Lampedusa, le persone sono state trasferite presso il centro hotspot di Messina dove sono state trattenute per sette giorni».

Le organizzazioni firmatarie del comunicato esaminano i profili giuridici di questa vicenda :«Si segnala che prima della attribuzione ai cittadini stranieri della condizione di richiedenti protezione internazionale o della notifica di un ordine di allontanamento per coloro ai quali non è riconosciuto il diritto a rimanere sul territorio nazionale, nessuna forma di limitazione della libertà personale può essere attuata nei centri hotspot. La discussa legge 132/2018, infatti, introduce per la prima volta la possibilità di trattenere i cittadini stranieri nei centri hotspot, attraverso le ipotesi, di dubbia legittimità costituzionale, del trattenimento del richiedente asilo volto alla determinazione o verifica di identità o cittadinanza e del trattenimento del cittadino straniero destinatario di un provvedimento di espulsione in caso di assenza di posti nei centri di permanenza per il rimpatrio, ipotesi nelle quali il trattenimento è possibile solo attraverso l’emissione di un ordine scritto e convalidato dall’autorità giudiziaria. Nel caso delle persone soccorse dalla Sea-Watch, come in numerosi altri casi, le autorità si limitano, tuttavia, a privare di fatto le persone della loro libertà, senza notificare alcun provvedimento e senza che queste persone possano mai incontrare un giudice che si esprima sulla legittimità del trattenimento.

È utile ancora una volta ricordare che qualsivoglia forma di privazione della libertà personale che non sia esplicitamente prevista dalla legge, disposta con ordine scritto dell’autorità giudiziaria o da altra autorità e convalidata dall’autorità giuridiziaria entro 48 ore dall’adozione del provvedimento, costituisce una lesione del principio di inviolabilità della libertà personale contenuto nell’art. 13 della Costituzione.

Tuttavia, nonostante la sua palese illegalità, tale forma di trattenimento è nei fatti accettata da tutti gli attori – pubblici e privati – inquadrati all’interno della governance dei processi migratori. Autorità di polizia, operatori degli enti di tutela e funzionari delle agenzie europee contribuiscono a riprodurre queste prassi detentive. Il perpetuarsi di tali comportamenti ha determinato un immaginario secondo il quale l’hotspot è considerato complessivamente e tout court come un luogo detentivo.

Tale forma di detenzione, di per sé grave, illegittima e da contrastare e sanzionare, nel caso delle persone soccorse dalla Sea-Watch 3 assume caratteri grotteschi. La detenzione arbitraria viene imposta in questa circostanza, per 11 giorni, a persone che per 17 giorni hanno visto la propria libertà limitata al territorio di una nave, in condizioni materiali estremamente precarie.

Quella che abbiamo davanti è una vicenda specifica. Riguarda singoli cittadini stranieri, ciascuno con la propria biografia, i propri desideri e i propri bisogni. Allo stesso tempo, questa vicenda si iscrive, in maniera più generale, all’interno della politica degli hotspot. La violazione illegittima della libertà personale alla quale sono sottoposte queste persone, infatti, è in continuità con quanto osservato negli ultimi tre anni, in contesti e tempi diversi.

Se osservata alla luce dell’ordinamento giuridico nella sua complessità, questa vicenda assume una proporzione inquietante. Si tratta, a tutti gli effetti, di una forma macroscopica di arbitrio. Le autorità statali detengono uno specifico gruppo sociale al di fuori della normativa vigente. È una violazione così rilevante che non può che interrogare profondamente – e invitare alla mobilitazione giudiziale e civica – la società civile e le sue organizzazioni.

Possiamo provare a immaginare quali sentimenti possano accompagnare, in questi giorni, la detenzione di questi migranti. È probabile che la permanenza nell’hotspot di Messina sia caratterizzata da incertezza, paura, spaesamento. Da un’altra prospettiva, anche chi, come noi, osserva la detenzione dall’esterno, è attraversato da una profonda inquietudine. Questo arbitrio sembra essere un puntuale indicatore della complessiva torsione autoritaria che attraversa il nostro paese: il diritto applicato ai cittadini stranieri ne è, anche in questa circostanza, cartina di tornasole».

Di fronte a queste violazioni, le organizzazioni sottoscriventi considerano intollerabile che la libertà personale di chiunque possa essere violata con forme di trattenimento di fatto fuori dei casi e dei modi previsti tassativamente dalla legge e sotto il controllo giurisdizionale come prescrivono l’art. 13 della Costituzione e le norme internazionali in un paese in cui dovrebbe vigere lo stato di diritto.

L'Asgi (Associzione per gli studi giuridici per l'immigrazione) comunica che «i migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 dovrebbero ora poter uscire dall'hotspot, quindi il trattenimento informale sembrerebbe terminato da ieri, resta il fatto che la prassi che hanno messo in campo è particolarmente grave» conclude Asgi.

Foto: Sea Watch


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