Welfare & Lavoro

Lavoro di migranti e rifugiati: luci e ombre in Italia e in Europa

L'occupazione di persone straniere in Italia è in linea con quella europea e non si discosta molto dal dato relativo ai nativi. "Il problema è che spesso i migranti fanno i lavori più pericolosi e dannosi per la salute", indica Mattia Vitiello, ricercatore del Cnr. Il nostro Paese ha un record negativo: solo un immigrato su otto svolge lavori altamenti qualificati

di Daniele Biella

L’integrazione delle persone straniere? Non può prescindere da un lavoro degno. “Sul lavoro, fondamento della nostra Repubblica, si costruisce anche la cittadinanza di quanti iniziano in Italia una vita nuova, per scelta o per necessità. Il lavoro è una leva di integrazione che non si limita all’emancipazione socio-economica, ma investe una dimensione più personale, e per questo totalizzante, fatta di relazioni, confronto, condivisione di difficoltà e successi, senso di appartenenza”. Inizia così il nono Rapporto governativo annuale Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia a cura della Direzione generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione, uscito a luglio 2019 e disponibile sul web.

È un inizio che va diritto al cuore del tema: l’inserimento lavorativo dei migranti – richiedenti asilo e rifugiati compresi – è fondamentale per la coesione sociale di ogni nazione del mondo. Tutte le nazioni: quelle a forte saldo immigratorio, ma anche quelle come l’Italia, che nel 2018 ha avuto più emigrati che immigrati (forse per qualcuno è una sorpresa ma di fatto è invece un trend negli ultimi anni) e che oggi, a natalità quasi nulla e con un tasso di anzianità tra i più alti del mondo, si deve interrogare più che mai sul proprio futuro.

Quantifichiamo il fenomeno, prima di entrare nelle dinamiche lavorative: quanti sono i migranti in Italia e, allargando un po’ la lente, negli altri Paesi europei? In Italia su dati ufficiali (lo stesso rapporto citato poc’anzi, per esempio) relativi al 2018 la quota è 5,4 milioni, l’8,5% della popolazione, che arriva al 9% con la stima di 600mila persone senza permesso in regola. Di questi 5,4 milioni, quasi la metà sono stranieri comunitari, ovvero provenienti da altre nazioni Ue. Il nostro Paese è all’undicesimo posto tra gli Stati europei per presenza migratoria: la prima è la Svizzera con il 25% – un abitante su quattro – seguita da Austria (15,7%), Belgio e Irlanda (entrambe al 12%), Germania (11,7%) e vicina ai dati di Spagna (9,8%), Regno Unito (9,5%), Danimarca e Svezia (entrambe all’8,8%), mentre la Francia è più sotto, al 7%, superata dalla Grecia con il 7,6%. Attenzione: stiamo parlando di migranti in generale, se guardiamo ai dati sui rifugiati, titolari di protezione internazionale, essi sono una parte molto limitata del totale: in Italia, per esempio, sono attorno alle 150mila unità, quindi meno dello 0,3% (tre su mille), che arriva allo 0,4% contando anche i richiedenti asilo in attesa di risposta alla propria domanda.

Quanti sono, invece, i migranti che lavorano, e quanti i disoccupati? In quasi tutta l’Europa, l’occupazione dei migranti è in linea con quella degli autoctoni. “In Italia è di poco superiore”, indica Mattia Vitiello, ricercatore del Cnr e autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra migrazioni e lavoro. “La ragione principale è la più naturale: sono costretti a lavorare per non vedere fallito il proprio sogno migratorio e quindi sono disposti a fare anche i lavori meno qualificati e più pesanti, in particolare le prime generazioni”. In Europa, a fronte di un’occupazione media del 65% di chi è nato nella nazione in cui vive, è al 63% la quota di migranti che lavorano, tra essi i rifugiati con più istruzione (mentre crolla a meno del 30% per i titolari di protezione che non hanno imparato a sufficienza la lingua del Paese ospitante, fonte: Rapporto Labour market performance of refugees in Eu).

Il Rapporto governativo italiano, nello specifico, riporta che il 70% delle persone immigrate in Italia è nel 2018 un lavoratore attivo, mentre i nativi arrivano al 67% (in aumento entrambi di un punto percentuale rispetto all’anno precedente). Ma anche la disoccupazione è più alta per i migranti: 14% contro il 9,7% di chi è nato in Italia. Incide, del resto, anche l’età media degli stranieri, più giovani e quindi con una componente più alta in età lavorativa rispetto alla popolazione italiana autoctona.

Solo nell’ultimo anno è raddoppiata l’incidenza degli infortuni dei lavoratori extracomunitari – dal 3,8% al 7,6%, dati Inail – che possono avere anche conseguenze letali”

Mattia Vitiello

Dove l’Italia si discosta dalle medie europee, in negativo, è invece sulla tipologia di lavoro che svolgono le persone immigrate: solo uno su otto, il 13%, svolge lavori altamente qualificati, contro il 40% dei nativi. Non solo nell’area Ue ma anche in quella Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’Italia è agli ultimi posti, in compagnia di Grecia e Corea del Sud. È ancora Mattiello a guidarci nell’analisi: “in alcuni contesti, come nelle fabbriche, i migranti svolgono i lavori più pericolosi e dannosi per la salute, quelli che gli italiani possono ‘scegliere’ di non fare”. Con conseguenze catastrofiche anche negli incidenti: “gli ultimi dati Inail sugli infortuni sul lavoro parlano chiaro, solo nell’ultimo anno è raddoppiata l’incidenza degli infortuni dei lavoratori extracomunitari– dal 3,8% al 7,6% – che possono avere anche conseguenze letali”. Ultimo eclatante caso di cronaca nera, il 12 settembre 2019, la morte dei quattro lavoratori indiani, sikh, in Lombardia, annegati nella vasca dei liquami di un’azienda agricola.

Ecco quali sono, nello specifico, i lavori più diffusi. “L’operaio nelle aziende manifatturiere del Nord, il bracciante, la lavoratrice domestica e vari settori del terziario, in particolare il commerciante e il lavoratore in alberghi, ristoranti e bar”. Il rapporto governativo sottolinea che “l’incidenza percentuale dei lavoratori comunitari ed extracomunitari sul totale degli occupati è attualmente al 10,6%, con rilevanti differenze settoriali. Nel caso delle Costruzioni la forza lavoro straniera corrisponde al 17,2% del totale, in Agricoltura è pari al 17,9% così come in Alberghi e ristoranti”. Anche a livello europeo, del resto, i migranti (rifugiati compresi) lavorano di più in Accomodation and Food service (13% contro 4%) rispetto ai nativi e molto di meno nei campi dell’educazione e della pubblica amministrazione, per esempio.

Questo per quanto riguarda i lavori regolari. In tutta Europa, e in Italia più che mai, c’è però un fenomeno devastante in atto, quello del caporalato, lo sfruttamento lavorativo delle persone povere e, per quanto riguarda gli stranieri, senza permesso di soggiorno regolare, compresi richiedenti asilo o addirittura titolari di protezione internazionale ma senza accesso al mondo del lavoro. “Le troviamo nei campi di Puglia, Campania, Sicilia, ma anche Veneto e Piemonte: persone disposte a tutto per avere i soldi per sopravvivere, pagate male da datori di lavoro spesso senza scrupoli perché nell’agricoltura capitalistica sul mercato il prodotto si deve vendere a poco altrimenti non si vende”, analizza Vitiello. Oltre all’impulso di nuove leggi governative anti-caporalato, “quello che serve sono azioni di inserimento lavorativo in cui collaborano pubblico e privato”. Il ricercatore del Cnr ha in mente lo Sprar, il Sistema di protezione rifugiati e richiedenti asilo, che ha garantito fino al 2018 (ovvero fino all’entrata in vigore del primo Decreto Sicurezza) sia formazione linguistica che lavorativa a chi era in attesa della risposta alla protezione internazionale. “Ci sono casi modello lungo tutta l’Italia di avviamento al lavoro con una filiera del tutto pulita proprio perché controllata, con il terzo settore spesso protagonista”, aggiunge Vitiello. Si pensi all’esperienza dell’astigiano dove la cooperativa sociale Crescere insieme ha affidato a dieci rifugiati di alcuni centri Sprar della zona 11 ettari di vigne e frutteti biologici, in cui sono occupati anche lavoratori comunitari. O al progetto di Safe In di Fondazione Adecco e JPMorgan Chase Foundation, che si conclude nel novembre 2019 e che in due anni ha permesso un contratto di lavoro sicuro a 66 persone (159 in tutto quelle orientate al lavoro) in aziende operanti in diversi settori, dalla panificazione alla grande distribuzione, dal mercato del pesce alla sartoria.

“La questione del lavoro dei migranti è fondamentale per le sfide future della nostra società”, riprende Vitiello, che ha in mente altri due aspetti cruciali: la questione dei contributi e l’apporto delle seconde generazioni. “Oggi le persone immigrati hanno un’età media parecchio più bassa degli italiani e stanno versando contributi utili anche alle pensioni degli autoctoni”. Il Rapporto Inps del 2017, che aveva una sezione specifica sul tema del lavoro dei migranti, già parlava chiaro: “Il saldo tra montanti versati e benefici maturati risulta sempre significativamente positivo. A fronte del versamento di contributi previdenziali il cui valore totale al 2016 è pari a 181,1 miliardi di euro, i lavoratori stranieri che ad oggi possiedono i requisiti contributivi hanno accumulato un valore attuale delle prestazioni pensionistiche pari a 144,6 miliardi. La differenza tra queste due grandezze corrisponde al contributo netto che la comunità migrante sta offrendo al sistema previdenziale italiano: 36,5 miliardi di euro”. In futuro, questo apporto può venire meno se la (preoccupante) combinazione di saldo migratorio in entrata negativo e invecchiamento della popolazione nativa porterà a una diminuzione dei contributi dei giovani – “anche a causa del maggiore precariato del lavoro da almeno un ventennio a questa parte”, sottolinea Vitiello – a fronte di un aumento della spesa pensionistica.

Il tema delle seconde generazioni o G2, ovvero le persone nate in Italia da genitori stranieri o arrivate nei primi anni di vita (parliamo di circa 800mila persone attuali ma in costante aumento), è di altra natura ma allo stesso modo centrale: “Buona parte di loro tra una decina d’anni sarà in età lavorativa: in mancanza di una legge chiara sulla cittadinanza e quindi con una difficoltà di accesso al mercato del lavoro rispetto ai propri coetanei non G2, il rischio di questi giovani – che magari non saranno così disposti ad accettare i lavori più degradanti come hanno fatto i genitori per garantire loro studi superiori, per esempio – è di rimanere segregati nonostante parte integrante della società”. L’immagine delle banlieue francesi, in un Paese dove oramai si parla di terze e quarte generazioni, è un monito a fare meglio.

Al netto di tutto quanto detto, “l’inserimento nel mondo del lavoro dei migranti e quindi anche dei rifugiati va trattato come elemento centrale, oggi più che mai”, ribadisce il ricercatore del Cnr. Tenendo ben presente che investire sulla qualità del lavoro porta benefici concreti: “oggi l’imprenditoria straniera è una componente sempre più importante”. L’ultimo rapporto governativo lo certifica, analizzando in particolare l’apporto delle persone extracomunitarie: “Considerando l’anno 2018, le imprese appartenenti a cittadini Extra UE – complessivamente 379.161 unità, pari all’11,9% del totale – rappresentano in Toscana il 17,6% delle aziende, in Lombardia il 17,1%, in Liguria il 16,9% e nel Lazio il 16,3%”. Imprenditori che lavorano e, soprattutto, danno lavoro.

Credit foto in apertura: pixabay.com


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