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Il futuro delle città sarà senza figli?

In Italia, secondo i dati Istat, il 34% delle famiglie è formato da una sola persona (8 milioni e 659 mila, 2,4 milioni in più di quelle registrate nel 2004 e quasi il doppio rispetto agli anni 90). Una solitudine che avvolge anche le famiglie con figli e che ha portato diversi studiosi a chiedersi se le città sono un luogo adatto alla crescita delle future generazioni. C'è fame di abbracci

di Fabrizio Floris

Ogni anno le Nazioni Unite presentano le statistiche sulla fame nel mondo e quest’anno per la terza volta consecutiva il numero di persone che soffrono di carenza alimentare è aumentato arrivando a 821 milioni. Un fenomeno che appare lontano anche se non mancano anche in occidente le persone che per nutrirsi sono costrette a rivolgersi agli enti caritativi e alle mense benefiche. Anche da noi si vedono persone raccogliere cibo per terra e persino nei cassonetti dei rifiuti. Il fenomeno appare tuttavia limitato e ben affrontato da istituzioni private, fondazioni e enti pubblici.

C’è invece una fame diversa che non si vede e non si riesce ad estinguere: è la fame di abbracci. Si chiama solitudine, isolamento non voluto, ed è la malattia del nuovo secolo. In Italia, secondo i dati Istat, il 34% delle famiglie è formato da una sola persona (8 milioni e 659 mila, 2,4 milioni in più di quelle registrate nel 2004 e quasi il doppio rispetto agli anni 90). Una solitudine che avvolge anche le famiglie con figli e che ha portato diversi studiosi a chiedersi se le città sono un luogo adatto alla crescita delle future generazioni.

In una recente analisi pubblicata su "The Atlantic", Derek Thompson, ha posto la questione in modo netto chiedendosi: «Il futuro delle città sarà senza figli?». Difficile rispondere, ma dalla periferia di Torino si vede una società con un tessuto connettivo sempre più poroso e friabile, dove il lavoro non crea più legami, dove si vive appartati e soli: evitarsi è il nuovo istinto in questi luoghi dove come ha scritto Luigi Zoia si vive il tempo della morte del prossimo. “Esco quando è buio per buttare la spazzatura, racconta Enzo da Mirafiori, non mi va di incontrare nessuno, non ci parliamo mai e non saprei cosa dire, no anche a Natale o Capodanno non ci salutiamo per gli auguri nel mio palazzo, non sappiamo cosa augurarci, auguri di cosa? Entriamo e usciamo sempre ad orari diversi come se fosse cronologicamente programmato, non conosco tutti i volti di chi abita qui, se ci incontriamo per strada difficile che ci salutiamo. Ci ho provato poi nessuno mi rispondeva così mi sono adeguato. Nel mio palazzo ci sono 10 piani, la metà sono vedove anziane, qualche coppia sempre di anziani e due famiglie, tre bambini in tutto, quattro cani”.

La fame di relazioni si è fatta profonda, come la fame da cibo quando perdura nel tempo non si può più riprendere a mangiare, occorrono acqua e zucchero per giorni prima di arrivare ai cibi solidi. La fame in periferia è atavica, lontana nel tempo, e ha prodotto aridità fino alle radici: non basta più riprendere a guardarsi, salutarsi, parlarsi, abbracciarsi. E poi quello che manca è l’orizzonte di riferimento, nessuno sa cosa succederà tra 5-10-30 anni. Ne consegue che gli adulti non possono fare da “maestri” ai giovani, non possono indicare strade da percorrere che essi hanno già solcato: non ci sono vie maestre, né gradi narrazioni da seguire (religiose, politiche, sociali), non si può assecondare la corrente e questo implica maggiore responsabilità individuale: le scelte sono continue e nessuno le può fare (o le ha fatte) per te. Il percorso diventa quindi individuale e attraversa territori inesplorati: non ci sono mappe (le precedenti generazioni non ti possono aiutare).

Per questo non si va dallo psicologo per curare i traumi del passato, ma per il futuro che non si conosce. Eppure bisogna sbrigarsi per fare in tempo a vivere.


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