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Sanità & Ricerca

E adesso vogliamo curare le malattie con un solo paziente al mondo

Esistono malattie ultra-rare, che colpiscono meno di una persona su un milione. La sfida, soprattutto per il non profit, sarà sempre più quella di trovare modelli che garantiscano una terapia anche a un solo malato al mondo. Francesca Pasinelli, direttore generale di Fondazione Telethon: «​Il momento è entusiasmante, ma c’è il rischio che l’interesse si sposti verso gli ambiti meno rari, lasciando “al palo” gli ultimi. Dobbiamo continuare a riproporre questo tema come un problema non risolto»

di Sara De Carli

La storia che ha portato le malattie rare (a cui Vita dedica il magazine in distribuzione da domani venerdì 6 marzo) fuori dal cono d’ombra in Italia coincide, per molti versi, con la storia di Fondazione Telethon. Nata nel 1990 dall’idea di Susanna Agnelli, che al fianco dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare portò in Italia una grande raccolta fondi – la ormai celebre maratona tv – per le malattie rare, la Fondazione «a 30 anni da quel giorno, incarna ancora lo stesso slancio visionario verso il futuro, unito alla consapevolezza di aver fatto crescere una ricerca che è vita per molte persone», dice Francesca Pasinelli, il suo direttore generale. La sua formula vincente? Forse proprio l’aver creato una “rete virtuosa” che vede tutti gli attori coinvolti. I risultati della ricerca finanziata da Telethon parlano da soli, a cominciare dal fatto che proprio qui dentro è nata una delle prime terapie geniche del mondo: oggi quella è una delle strade più promettenti per la cura delle malattie rare e non solo.

Dalla sua nascita, la Fondazione ha investito 528 milioni di euro per la ricerca. «Fondazione Telethon è stata, negli anni, un motore di questa azione sinergica: ha aiutato a comprendere come questo sia un traguardo comune, anzi un bene comune», ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nei giorni scorsi, ricevendo al Quirinale una delegazione della Fondazione. «Porre al centro dell’attenzione il tema delle malattie rare non è soltanto un atto di generosità e di altruismo. È una scelta di responsabilità sociale. È interesse collettivo preservare e non disperdere le risorse umane proprie delle numerose persone che sono colpite dalle varie forme di malattie rare. Possono dar molto agli altri. Rimuovere gli ostacoli che gravano su un paziente, migliorare la vita di un malato, anticipare una diagnosi, alleviare gli affanni delle famiglie rende tutti più forti. Una possibilità in più offerta a un bambino, a un ragazzo, a un adulto, è una possibilità in più per l’intera comunità di cui facciamo parte».

Francesca Pasinelli, perché quello presente è davvero un momento epocale per le malattie rare? Quali sono i momenti salienti del cambiamento?
​Per le malattie rare c’è stata in questi anni una rivoluzione straordinaria. Se ripenso alla vita di Fondazione Telethon, una storia parallela al grande sviluppo del tema malattie rare, non si può non segnalare lo sforzo fatto dai regolatori con gli Orphan Drug Act, a livello americano ed europeo (quello americano è del 1983, quello europeo del 2000, ndr), quando cioè si riconobbe che una fetta di malattie erano neglette. Questo era vero all’epoca, perché la ricerca farmaceutica era interamente dedicata alle malattie molto diffuse nella popolazione: l’intervento del legislatore e delle autorità regolatorie ha reso più interessante per le aziende il mettersi a sviluppare terapie per malattie rare. Contestualmente va citata la presa di coscienza da parte della comunità di pazienti, che ha cominciato a diventare vocale. Possiamo dire che Fondazione Telethon è una comunità di pazienti che che ha detto “vogliamo avere voce e far diventare rilevanti gli investimenti in ricerca”. Quest’ultima cosa in particolare ha portato nelle case delle persone il problema, raggiungendo lo straordinario risultato di dare dignità a persone che prima stavano nel buio.

Appartengo a una generazione che ha sentito usare l’espressione “c’è una tara in famiglia”, per parlare di queste malattie. Tutto questo è molto cambiato. Aver portato le persone in tv ha mutato la percezione delle malattie rare. La gente comune ha compreso che valeva la pena investire in questa ricerca

Francesca Pasinelli

La maratona tv in questo senso è stata fondamentale…
Io appartengo a una generazione che ha sentito usare l’espressione “c’è una tara in famiglia”, per parlare di queste malattie. Tutto questo è molto cambiato. Aver portato le persone in tv ha mutato la percezione delle malattie rare. Primo, nel senso di dire che queste persone esistevano. Secondo nel fatto che con la loro vita, per quanto faticosa e a rischio, queste persone rivendicavano una propria presenza nel mondo. Questo ha portato la gente comune a comprendere che valeva la pena investire in questa ricerca.

E così sono arrivate anche le terapie.
È servito molto tempo per mettere a punto le prime terapie innovative, che adesso sono invece in una fase di grandissima crescita. Da questo punto di vista il cambiamento più profondo negli ultimi 30 anni è stata la rivoluzione genomica: si conosceva il difetto genetico alla base delle malattie, ma con la genomica sono stati compresi i difetti nel Dna alla base delle malattie rare, grazie a un massiccio investimento in ricerca di base. Una volta compreso il meccanismo, pensare di correggerlo diventava possibile. I farmaci mirati per le singole malattie hanno trovato in questo la base su cui essere costruiti. Credo che a noi si possa ascrivere il fatto di essere stati i primi al mondo a dimostrare la bontà della tecnologia genica, che è ad personam per definizione. Di terapia genica si parlò come possibilità tra la fine degli anni ’80 e l’ inizio degli anni ‘90 negli Usa e in molti ci investirono. Il percorso che porta a una terapia però non è privo di errori e problemi e ai primi effetti collaterali gravi quasi tutti disinvestirono: la terapia genica sembrava una promessa non mantenuta. Noi eravamo nella condizione di doverci occupare per forza di malattie genetiche rare, quindi siamo andati avanti sulla terapia genica, che è stata sviluppata al nostro interno grazie alla bravura dei nostri scienziati e a una visione strategica. Questa cosa per anni l’abbiamo fatta in totale solitudine. Non c’era nessun interesse industriale, la terapia genica sembrava molto rischiosa e per nulla promettente, ma l’unico banco di prova palusibile erano proprio le malattie genetiche rarissime. Intanto abbiamo dimostrato che questa tecnologia era una promessa mantenuta e poi abbiamo compreso anche che avrebbe potuto essere allargata ad ambiti molto meno rari, per esempio i tumori. Quando si è capito che la piattaforma tecnologica era estendibile non solo a un numero ampio di malattie rare, ma anche in ambiti commercialmente più interessanti, le aziende sono tornate. Però la terapia genica per l’Ada Scid, la prima al mondo con cellule staminali, è stata messa a punto da noi. Adesso è stato depositato un dossier per una terapia genica per la leucodistrofia metacromatica, ci sono terapie avanzate in altri centri del mondo… È evidente che a questo punto il percorso non può che essere in crescendo.

Noi eravamo nella condizione di doverci occupare per forza di malattie genetiche rare, quindi siamo andati avanti sulla terapia genica, che è stata sviluppata al nostro interno grazie alla bravura dei nostri scienziati e a una visione strategica. Questa cosa per anni l’abbiamo fatta in totale solitudine

Francesca Pasinelli

Entro il 2030 sono attese 60 nuove terapie geniche: è così?
Io credo sia anche un numero sottostimato: è una ipotesi al tasso di crescita attuale. Ad ogni modo, sea la terapia genica ha rappresentato una svolta, non è detto che sarà l’atterraggio futuro: penso ad esempio al gene editing o agli oligonucleotidi antisenso, almeno fra quelle che possiamo immaginare ora.

Cosa vede per il futuro?
Il momento presente è sì entusiasmante, ma c’è anche il rischio che l’interesse si sposti verso ambiti meno rari, lasciando “al palo” gli ultimi. Un dato preoccupante, ad esempio, è che gli ultimi bandi della Commissione Europea per la ricerca sulle terapie innovative escludono esplicitamente le malattie rare. “Ripensare” le malattie rare significa anche continuare a riproporre questo tema come un problema non risolto.

Cosa intende con “restino al palo”?
Per alcune malattie ultra-rare, quelle che colpiscono un malato su 1 milione di persone, su cui tutte queste piattaforme tecnologiche, dalla terapia genica al gene editing, hanno avuto il loro banco di prova per dimostrarne l’efficacia – sappiamo che la terapia genica potrebbe rappresentare una soluzione, ma ad oggi manca la possibilità di replicare un processo che è lungo, faticoso, economicamente oneroso su larga scala… È noto a che a livello europeo e industriale c’è un disinvestimento sulle malattie ultra-rare ed è comprensibile che l’industria voglia lavorare sulle più diffuse tra le malattie rare. Per noi però lo sforzo deve restare quello di studiare modelli che possano risolvere il problema di ogni singolo paziente. Questa è la sfida che vedo per Telethon per i nostri prossimi 30 anni, trovare sistemi sostenibili in modo da curare il maggior numero di malattie, e quindi di pazienti. Non possiamo lasciare sole le persone che potrebbero essere curate se solo ci fossero più risorse economiche, umane e produttive… La sfida per gli enti finanziatori, soprattutto quelli non profit, è trovare modelli che rendano possibile la messa a punto di queste terapie anche laddove siano ritenute commercialmente poco interessanti.

È noto a che a livello europeo e industriale c’è un disinvestimento sulle malattie ultra-rare ed è comprensibile che l’industria voglia lavorare sulle più diffuse tra le malattie rare. Per noi però lo sforzo deve restare quello di studiare modelli che possano risolvere il problema di ogni singolo paziente. Questa è la sfida che vedo per Telethon per i nostri prossimi 30 anni, trovare sistemi sostenibili in modo da curare il maggior numero di malattie, e quindi di pazienti. Non possiamo lasciare sole le persone che potrebbero essere curate se solo ci fossero più risorse economiche, umane e produttive…

Francesca Pasinelli

Lo slogan del “ripensare” il frame della rarità e dell’equità nelle opportunità a lei cosa fa venire in mente?
È questo. Ripensare significa cominciare a riproporre il tema delle malattie rare come un problema non risolto. Togliendo anche quella patina di “moda” che ha avuto, e di cui abbiamo tutti beneficiato. È tempo di riguardare lo stato dell’arte, comprendere chi sta ancora restando indietro e lavorare per rendere sostenibile il risultato terapeutico. Servirà molto lavoro di concerto fra tutti gli enti non profit che si occupano di malattie rare. Non esiste solo la cura, ovvero l’occuparsi dell’oggi dei malati (noi su quello interveniamo poco), c’è anche il garantire l’accessibilità delle terapie, che è un tema cruciale e obbligatorio.


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