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Enzo Bianchi e la Comunità di Bose, le fatiche espresse già nel 2011

Nel 2014 Enzo Bianchi (allora priore) aveva già chiesto una visita da parte di persone esterne alla comunità e nel 2011 aveva dichiarato al settimanale Jesus: “Negli ultimi anni ho avuto l’esperienza della falsità, qui al nostro interno”. Per Padre Claudio Monge domenicano, «questa è un’esperienza dello Spirito»

di Fabrizio Floris

Il giorno dopo la comunità cattolica torinese si è svegliata con la notizia dell’allontanamento di Enzo Bianchi dalla comunità monastica di Bose che aveva fondato nel lontano 1965. A lui ed altri due monaci e una monaca è stato chiesto “di trasferirsi in altro luogo”.

Potrebbe essere una dinamica comunitaria come tante, il passaggio da una fase carismatica ad una istituzionale, una vicenda umana legata alla fatica da separarsi da ciò che si è “creato”, ma la ferita è legata al fatto che Bose è percepita come una comunità ideale: un luogo “perfetto” che ha spezzato la separazione monastica tra uomini e donne, ha rotto il muro di divisione tra confessioni cristiane, infatti, ne fanno parte cattolici, protestanti, ortodossi e luterani. Ha reciso il recinto tra laici e cattolici: ci sono nella comunità sia preti che laici. Una peculiare forma di vita comunitaria sorta nel solco degli orientamenti del Concilio Vaticano II. “Una Comunità che si è distinta, secondo Papa Francesco, nell’impegno per preparare la via dell’unità delle Chiese cristiane”.

Le difficoltà nei gruppi umani non possono mancare, ma il carisma sembrava in grado di poter sopperire rischiando, tuttavia, di essere esso stesso ideale. Nel 2014 Enzo Bianchi (allora priore) aveva già chiesto una visita da parte di persone esterne alla comunità e nel 2011 aveva dichiarato al settimanale Jesus: “Negli ultimi anni ho avuto l’esperienza della falsità, qui al nostro interno, non verso di me in particolare, ma verso tutta la comunità. Non pensavo di poter vivere, passati i sessant'anni, una tale destabilizzazione interiore da restare in alcuni momenti profondamente confuso. Non avevo mai provato questa esperienza: la cattiveria sì, la si può capire, ma la falsità non è nel mio orizzonte. È stata la prova più dura che ho sofferto nella mia vita nella Chiesa e nella vita monastica”.

Adesso arriva la richiesta di allontanarsi per permettere di rinnovare il carisma originario: tocca ai monaci e alle monache fare il proprio cammino, interpretare in modo nuovo quello che hanno ricevuto per rendere possibile un nuovo legame, solo così l’eredità di Enzo Bianchi potrà proseguire. Tuttavia, la fatica è tanta e arriva proprio nel giorno in cui Paolo racconta che “lo Spirito mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni”. Il cristianesimo non è una passeggiata in carrozza e a volte oltre a idealizzare le comunità, le persone, si idealizza la fede stessa.

«Ma sono convinto», ci spiega P. Claudio Monge domenicano, «che questa è un’esperienza dello Spirito», ed è quello che tutti ci auguriamo.

Qui un'intervista a padre Manicardi pubblicata da Vita nel 2016


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