Solidarietà & Volontariato

Per salvare gli altri non bisogna dimenticarsi di vivere e amare

La storia di Francesco, operatore sociale che è incappato nella sindrome del salvatore: si era caricato di troppe persone, con troppi problemi che lo avevano schiacciato

di Fabrizio Floris

Francesco è un operatore sociale ha tanta gente che gli gira intorno, ma non ha amici: solo richiedenti. Quando squilla il telefono inizia ad agitarsi, anche se per lui è consuetudine, ma non riesce ad si abituarsi alle sofferenze che gli piombano addosso e a quelle che vede attraversando la periferia di Torino.

Ultimamente è più agitato del solito perché non ha più niente da offrire: tutti i suoi progetti sono stati chiusi e anche lui è entrato nella famiglia dei disoccupati, ma la gente della strada continua a chiamarlo perché il suo numero è rimasto nella memoria degli smartphone come l’ultima spiaggia quando non si trova un letto o c’è un’emergenza. Così nel bel mezzo del lockdown si è trovato subissato da richieste su richieste: casa, lavoro, medicine e soprattutto soldi. Anche adesso che può uscire evita le persone, ma solo per difendersi, per non sprofondare, al telefono rispondere con parsimonia, finché la tenacia dei poveri non prevale: pronto! Ciao come stai? “io male” rispondeva il suo amico Joab da Kariobangi (Kenya): “i bambini sono stati buttati fuori dalla scuola, Margaret è malata e non posso pagare le medicine, anch’io sono malato e ho un debito con l’ospedale Kenyatta, poi sono venuti quelli della casa è minacciano di chiudere la porta se entro domani non pago l’affitto”. Quanto di serve? “Sono tre mesi di affitto, poi la scuola, le medicine… minimo mi servirebbero mille euro. Si, ma senti Francesco io non voglio vivere come un mendicante sulla terra, io voglio fare qualche cosa! Aiutami, chiedi a qualcuno che mi procuri un credito perché possa avviare un’attività, minimo, minimo, servirebbero altri mille euro”.

Il senso di impotenza e lo mandava in tilt, non riusciva a reggere la frustrazione, non accettava di non poter fare nulla per quella famiglia, per quei bambini che aveva visto crescere negli anni in cui lavorava a Nairobi. Si dannava, ma sapeva che come operatore, non poteva sostenerli, ma come amico? Sarebbe dovuto passare dall’altra parte infrangere le regole della giusta distanza. Dopo quaranta minuti su whattsapp era prostrato avrebbe avuto bisogno di riflettere, ma negli ultimi mesi oltre al problema del lavoro aveva altre questioni sue di cui non voleva parlare con nessuno: legami che facevano male e non riusciva a concentrarsi, troppi pensieri gli impedivano di restare sveglio.

Per la prima volta dopo aver vissuto anni in cui tutto intorno a lui era in armonia (relazioni, famiglia, lavoro) e aveva il tempo e i pensieri liberi per pensare agli altri, si trovava schiacciato, triste, incapace di reagire ai suoi di problemi.

Adesso per gli altri poteva fare poco, per cui cercava di “tenere” lontano le persone perché sarebbe stato come un cieco che fa la strada ad altri ciechi. Più di tutto aveva perso il coraggio, la sacra collera, si era fatto più razionale, logico, calcolatore.

Forse si era caricato di troppe persone, con troppi problemi che lo avevano schiacciato, forse era stato presuntuoso, pensava di essere in grado di dare risposte a tutti, di salvare il mondo. Credeva di essere un cristiano, ma non aveva capito che aveva percorso solo i primi passi, aveva cercato di fare del bene, ma era incappato nella sindrome del salvatore: buttarsi nelle situazioni più disperate pensando di cambiarle o persino di redimerle. Non si rendeva conto che: primo è Cristo che salva, secondo Cristo opera la sua salvezza morendo in croce. Ora sa che deve sbrigarsi, fare in tempo a vivere e ad amare.


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