Economia & Impresa sociale 

«Lo Stato imprenditore è uno Stato sussidiario o non è»

«La dimensione imprenditoriale si qualifica nella capacità di generare valore, non già nel controllo e nel riparare i danni», spiega Paolo Venturi. Per questo occorre avviare un dibattito su innovazione e Terzo Settore, affinché si abbandoni l'idea che basti dare “indicatori al Governo”. Tra istituzioni e Terzo settore, al contrario, «servono governance e alleanze di scopo»

di Marco Dotti

Atlantia e Autostrade sono state un esempio. Macroscopico, ma fra tanti, di come anche l'idea di Stato innovatore rischi di piegarsi a logiche che nulla hanno a che vedere con l'innovazione e con quel world making, ossia capacità di generare (non di occupare!) mondi che è al cuore del Terzo pilastro: la comunità, la società civile organizzata, il Terzo settore.

Come ci ha spiegato Federico Anghelé di The Good Lobby (leggi qui) ai facili trionfalismi sul Recovery Fund , se davvero vogliamo uscire dalle logiche della rendita, bisogna sostituire una solida visione strategica della società civile. World making, appunto. Non è un caso allora se proprio di World making (sottotitolo: Per un nuovo protagonismo del Terzo pilastro) si dibatterà alle Giornate di Bertinoro per l'Economia civile, il 9 e il 10 ottobre prossimi.

Di questo tema – sul quale vorremmo aprire una discussione proprio in seno al Terzo pilastro – parliamo con Paolo Venturi, economista, direttore di AICCON e responsabile delle Giornate di Bertinoro.

Il ritorno dello Stato, in economia, nel sociale, non è come molti se lo aspettavano. Non sembra proprio, per usare la formula di Mariana Mazzucato, uno Stato imprenditore…
Non c’è alcun dubbio che siamo in un momento storico in cui le carte in mano le hanno gli Stati e le Istituzioni sovra-nazionali. Una responsabilità che dovrebbe far recuperare alla Politica il suo vero ruolo: tornare ad essere il regno dei fini e il mercato il regno dei mezzi, e non il contrario. Anche le imprese hanno capito che quella prima era una “responsabilità” (sociale) oggi deve diventare una intenzione (sociale), anzi uno scopo (purpose). Un percorso non facile ma si vedono già i primi segnali. Dentro questa transizione non bisogna però alimentare “riduzionismi”, uno di questi è una concezione errata di ciò si intende con Stato Imprenditore.

La dimensione imprenditoriale si qualifica nella capacità di generare valore, non già nel controllo e nel riparare i danni. Lo Stato imprenditore lo si riconosce dall’effetto abilitante che ha sui mercati e sulla fiducia che genera, evitando quindi di essere un elemento che “spiazza” la dimensione contributiva della comunità e delle imprese. Lo Stato Imprenditore è sempre uno Stato Sussidiario.

In sostanza, lo Stato interviene per evitare un eccesso di costi sociali, ma questa non è più innovazione, come nel caso di Monte dei Paschi di Siena. Nulla di male, ma siamo già in un’altra dimensione e in tutt’altra logica.
Come ho detto bisogno evitare gli effetti nefasti di uno stato che assume prevalentemente le vesti dello “Stato Riparatore”. Questa prassi, talvolta necessaria, deve restare l’eccezione. Non può essere la qualifica della dimensione imprenditoriale, che si giustifica nella capacità come dice la Mazzucato, di essere strumento di pre-innovazione in mercati dove i rischi sono alti e nei mercati dove il bene comune, rischia di essere ostaggio delle scelte di alcuni monopolisti privati.

Quindi, l'aspetto pubblico di fatto diventa l'elemento che orienta e catalizza gli investimenti, crea le condizioni affinché si crei valore in maniera più sostenibile e distribuendo valore in maniera più equa. Questo è il passaggio, ciò di cui non si discute.

Oggi, quindi di che stato abbiamo bisogno?
Se è vero che lo sviluppo significa togliere i viluppi, gli ostacoli, allora abbiamo bisogno prima di tutto di uno Stato Facilitatore. Il grande risultato ottenuto dall’Italia nel negoziato con l’Europa è un banco di prova per la politica nel disegnare priorità, governance e soluzioni praticabili. Le priorità dell’Europa sono le stesse che servono a noi per diventare più moderni e sostenibili. Tutto si giocherà sul “come”. Questa è una grande occasione per includere le forze vitali del Paese e non per renderle “spettatrici” di come i soldi verranno allocati. Sanità e coesione, transizione climatica e digitalizzazione devono essere capitoli di una mobilitazione capace di stimolare non solo i beni privati e pubblici, ma anche beni comuni ed i beni relazionali. In Italia di questo abbiamo bisogno. Uno degli elementi che qualifica il valore aggiunto di uno Stato imprenditore e facilitatore sta nel liberare le intelligenze collettive, la tecnologia, gli investimenti e la dimensione contributiva della comunità.

Il vero test della Next Generation UE si giocherà su questo punto?
Proprio su questo punto e, di conseguenza, sulla necessità di ammodernare uno Stato per renderlo più ospitale rispetto alle nuove generazioni. Il nome di questo “programma di risorse” ci dice già tutto, non perdiamo tempo. Diamoci indicatori per rendere migliore il futuro delle nuove generazioni. Investiamo su di loro, sulla loro educazione (cosa profondamente trascurata). Questa operazione bisogna farla con degli investimenti e non solo facendo un'azione redistributiva. In Italia i giovani han bisogno di più potere e non appena di nuove “card” da spendere.

Oggi il dibattito sembra limitarsi all’accountability…
E ci mancherebbe altro che non rendicontassimo. Ma il tema cruciale è ben altro: non è come spendere i soldi, ma come generare impatto sociale. (non basta adattarsi, occorre trasformare) Tema che vede entrare in campo il Terzo Settore. Detto in altri termini, la sfida per noi è come trasformare la spesa in leva per lo sviluppo. Il ruolo dello Stato deve essere di un'istituzione che certamente decide, ma non si accontenta di un governo dei processi, bensì costruisce governance e si dà missioni che devono misurare il valore generato. Senza una intermediazione della società in tutte sue forme, non si raggiungeranno mai gli obiettivi. Non basta dare “indicatori al Governo” servono governance, alleanze di scopo.

Lo Stato imprenditore lo si riconosce dall’effetto abilitante che ha sui mercati e sulla fiducia che genera, evitando quindi di essere un elemento che “spiazza” la dimensione contributiva della comunità e delle imprese. Lo Stato Imprenditore è sempre uno Stato Sussidiario

Paolo Venturi

Parliamo del tema vero, allora…
Dobbiamo, tra le mille sfide che ci si presentano, costruire delle missioni dentro cui c’è una pluralità di attori nuovi. Aprire opportunità alle nuove imprese e all’innovazione è la chiave, per non ricadere nella rendita.

La rendità è il rischio più grande, dunque?
Se non usciamo dalla logica della rendita, anche un'efficiente allocazione della spesa ci restituirà un mondo semplicemente uguale a quello che abbiamo lasciato prima del lockdown. Per innestare un’altra velocità è importante aver dei chiari gli obiettivi. Se il dilemma è solo un dilemma redistributivo, rischiamo di trasformare e sprecare questa opportunità. Se, invece, queste risorse diventano una grande opportunità per dare fiducia a soggetti nuovi e innovativi alimentando un nuovo corso contributivo, allora possiamo uscire dalla gabbia.

L’esito naturale di un'efficiente allocazione della spesa nasce da processi in cui si creano governance diverse. Da questo punto, a mio avviso, il Terzo settore, spesso ai margini di questo processo, deve diventare centrale.

Se l'obiettivo è declinare nuove missioni pubbliche lo spazio che si apre è immenso, a meno che non ci si ripieghi ancora una volta sullo status quo
Se consideriamo il Terzo settore come Terzo Pilastro, fra Stato e mercato, il suo compito non è più imporre una propria mission, importante o meno che sia, sul piano sociale. Il tema è come integrare questa mission in quella degli altri due poli, influenzare l’Agenda del paese. Il Terzo Settore potrebbe, all’interno di questa logica, contribuire a generare nuove policy “mission oriented”: politiche pubbliche e di sviluppo in cui il fattore relazione e comunitario diventa parte del processo e non una protesi. Mi aspetto che il Terzo Settore e le Imprese sociali, ridefiniscano i propri “piani strategici” rendendoli proposta per il Paese.


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