Cooperazione & Relazioni internazionali

Le mille vite di Thebby, l’ingegnere congolese che oggi vive a Nairobi

In Congo alla fine degli anni 40 quando è nato nella città di Lubumbashi dove i genitori divenuti pastori protestanti hanno avuto la possibilità di mandarlo a studiare in Europa: prima a Roma, poi a Pisa e in seguito a Londra. Dopo 30 anni lontano dal continente nero va a vivere nella famigerata baraccopoli di Korogocho e poi a Nairobi

di Fabrizio Floris

Emmanuel Thebby ha avuto molte vite. La prima in Congo alla fine degli anni 40 quando è nato nella città di Lubumbashi dove i genitori divenuti pastori protestanti hanno avuto la possibilità di mandarlo a studiare in Europa: prima a Roma, poi a Pisa e in seguito a Londra.

Si laurea in ingegneria oltre a swahili, lingala, kikongo, chiluba e francese, impara l’italiano, il tedesco e l’inglese. Il suo ricordo della Roma degli anni 60 è vivido ed è il ricordo di una città bellissima di gente piena di curiosità ed interesse per il ragazzo africano. La seconda inizia in Germania dove lavora alla Siemens e poi dopo dieci anni apre un’attività in proprio, sposa Tura da cui nascono due figli Eric e Albert, ma nel 1995 per una brutta storia viene espulso. Arriva in Congo, ma la situazione è instabile così decide di riparare in Kenya.

La terza è uno shock dopo 30 anni fuori dal continente ne ha perso la conoscenza e le regole, viene derubato, picchiato, ridotto sul lastrico va a vivere nell’ultimo posto degli altopiani keniani la famigerata baraccopoli del caos: Korogocho. Qui si sposa ha tre figli e grazie ad una serie incredibile di lavori precari, aiuti, attività informali, riesce a vivere freneticamente per oltre 10 anni. La quarta inizia dall’altra parte di Nairobi nel quartiere di Dagoretti dove lavora per un’associazione di volontari italiani, qui conosce Jane con cui avvia una relazione da cui nasceranno tre figli, ma di cui non saprà mai nessuno. La quinta inizia con un ricovero improvviso. È in città le gambe cedono, non riesce a muoversi viene portato in ospedale e qui al suo capezzale tutte le vite troveranno una sintesi che è ancora in corso. Si trasferisce in un’area masai nei pressi di Ongata Rongai la salute precaria non gli permette di lavorare, ma tanto “qui non ci sarebbe nessuna possibilità. La terra è troppo arida e non si può coltivare”.

La figlia Lucy finisce gli studi, ma l’unico sbocco occupazionale che trova e fare le pulizie al Comune di Nairobi, va avanti tre mesi e le pagano solo 4 giornate, poi arriva il corona e tutto si blocca, le dicono che può lavorare solo nel suo Comune. Le scuole chiudono e anche gli altri figli rimangono a casa. Arriva la fame, racconta Emmanuel, mangiamo una volta al giorno, “ieri sono andato al negozio per comprare un po’ di farina per fare un po’ di ugali, ma non me l’hanno data perché avevo già un debito di mille scellini. Cerco di andare a piangere dagli amici, ma qui stanno tutti soffrendo, a parte quelli che si sono messi in tasca i soldi degli aiuti arrivati dall’Europa e dalla Cina. Alla fine la gente anziché morire per il corona virus, muore di fame: è un danno irreparabile. Il virus è una possibilità di morte, la fame una certezza: il corona non può finire tutti, ma la fame sì.

In questa vita non va più nulla si sta senza sapere cosa fare, si sta senza sapere dove si va, senza mangiare, senza lavoro, senza camminare è veramente un guaio. Il mondo è veramente cambiato, non si sa più come vivere. La vita è diventata carissima da quando c’è questo corona. Vedo tutto buio da quando la fame è nella pancia dei miei figli. Non si può sopravvivere senza niente. È difficile, ma io spero. Noi siamo creature di Dio, è Dio sa, noi non sappiamo dove andiamo. Siamo qui solo per un tempo: la terra resta, noi passiamo, ma la storia continua. Che Dio ci protegga”.


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