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Le donazioni? In Italia la cultura del dono è ancora carente

Elena Zanella, esperta di Fundraising, interviene sulla vicenda legata al proliferare di indagini sul mondo donativo italiano affrontata su vita.it da Massimo Coen Cagli. «Le Onp hanno una responsabilità attiva su questo tema ed è loro compito lavorarci su, studiando e informandosi»

di Elena Zanella

Condivido il pensiero di Massimo Coen Cagli sulla lettura dei dati e anche le sue riflessioni in merito: ci vorrebbero criteri comuni di misurazione.

I dati sono dati ma la loro imputazione e, soprattutto, la loro analisi possono differire di molto e far cambiare la percezione delle cose. Io stessa avevo letto il numero di Vita di gennaio come eccessivamente sensazionalistico, in senso negativo s’intende. Ad ogni modo, i numeri sono numeri e i dati una fotografia del momento.

Ritengo invece sia interessante provare a ipotizzare cosa dobbiamo aspettarci ora facendo delle ipotesi che nascono da una riflessione di senso che parta da un’osservazione dei dati in un periodo più ampio.

Mi spiego meglio: chi si occupa di dono deve avere ben presenti questi dati ma è poi necessario che vada oltre e impari a spalmarli senza fermarsi al numero in sé perché questo sarebbe un errore.

GFK Eurisko ha negli anni promosso una ricerca molto interessante, un osservatorio sui donatori del Belpaese, che evidenziato come inclini al dono due italiani su 10. Solo fino a 15 anni fa circa, i donatori erano tre su dieci. Abbiamo dunque perso il 10% di questa popolazione. Da qui parte una riflessione che merita attenzione: una buona parte di italiani non è propensa al dono. Ciò significa che in una condizione di normalità, probabilmente non donerebbe. In una condizione di normalità, appunto… ma quella attuale, quella emergenziale, non è evidentemente una condizione normale.

Faccio dunque alcune considerazioni consequenziali sullo stato attuale che desidero passare come tali e che solo il tempo potrà o meno confermare (materia che ho poi approfondito per la stesura del mio ultimo libro):

  • In maggio, in pieno lockdown, l’ammontare delle donazioni ha superato solo in Italia il miliardo di euro. Faccio solo un’ipotesi ma è probabile che molti donatori fossero alla loro prima volta. Probabilmente, per molti di loro si è trattato di un “caso isolato” e non riaccadrà in futuro. Per qualcuno, invece, può essere una novità piacevole, tutto sta a capire se l’esperienza di dono che ne risulterà sarà positiva o meno. Questo dipenderà molto dalle azioni che i nostri enti metteranno a supporto.
  • Rispetto alle modalità, la chiusura ha accelerato l’affermarsi delle nuove modalità di pagamento, non c’è dubbio. Un processo che era già in atto ma che si è forzatamente affermato: ciò vale anche per il dono, penso, ed è fisiologico. Accompagnare la trasformazione digitale è la scelta più ovvia e di senso ma non deve sostituirla in via definitiva, non ancora almeno.
  • Ma anche l’universo dei donatori abituali, che sappiamo avere un’età matura (> 65) ha probabilmente subito un mutamento nei primi sei mesi dell’anno e di questo ne avremo percezione solo nei mesi a venire.
  • Faccio poi una riflessione in merito allo spostamento dell’atto di dono causato dall’emergenza: buona parte del dono si è concentrato su quest’ultima, questo è fuori di dubbio, ma non ha probabilmente spostato la scelta del donatore abituale. La risposta all’emergenza è un comportamento istintivo che è altra cosa rispetto a una scelta consapevole e “di campo”. Quindi, ci può essere una flessione ma non mi aspetto una caduta drastica. Se l’organizzazione ha fatto un buon lavoro in termini di gestione del donatore, non credo debba temere. Un buon indicatore rispetto a ciò potrà arrivarci dalla lettura dei dati del 5×1000 sui redditi 2019, ovvero dalle scelte appena effettuate. Questa sarà una vera cartina di tornasole sull’agire organizzativo, a mio parere ma anche qui purtroppo sappiamo non essere pratica diffusa e quindi i dati sono comunque parziali. Altra cosa però sarà la qualità del dono che già da oggi potrebbe contrarsi con ogni probabilità per alcune categorie di donatori, ovvero quelle fasce della popolazione che pur abituate a donare hanno dovuto fare i conti con gli effetti sul proprio lavoro.

Insomma, c’è un contesto e poi c’è un comportamento attivo in risposta al contesto. Le azioni dei donatori dipendono dall’uno e dall’altro e non sono prerogativa di uno o dell’altro.

Ciò comporta che le organizzazioni devono imparare a prevedere, anticipandoli, i comportamenti dei donatori anche futuri. Questo significa studiare le generazioni, comprendendo che le future, parlo delle generazioni Z e alpha, sono molto diverse da quelle che le hanno precedute. Per intercettarle già da adesso occorre andare a prenderle dove si trovano. Per farlo, occorre studiare e informarsi. Troviamo il tempo di farlo.

Ecco, io sinceramente sono ottimista verso il futuro ma dobbiamo aspettarci un investimento diverso dall’attuale perché diversamente non saremo in grado di affrontare il cambiamento che è già in atto. Non è colpa di nessuno.


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