Cooperazione & Relazioni internazionali

Feder: «Per uscire dalla tossicodipendenza non bastano i servizi: c’è bisogno di più società»

I dati pubblicati nella Relazione al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia rimangono tragici, ma non bastano a descrivere una realtà fatta di persone che come società ci stiamo dimenticando. «Non ha più neanche senso parlare solo di una sostanza. I ragazzi oggi sono polidipendenti», dice Simone Feder, psicologo nelle strutture della comunità Casa del Giovane di Pavia. «Non importa che cosa "buttano giù i giovani", ma perché lo fanno. La mia esperienza mi insegna che nessuno è irrecuperabile, ma dobbiamo cambiare paradigma, uscire dalle comunità, la presa in carico spetta a tutta la società»

di Anna Spena

I dati pubblicati nella Relazione al Parlamento 2020 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia rimangono tragici, ma non bastano a descrivere una realtà fatta di persone che come società ci stiamo dimenticando.

Nel 2019 sono stati registrati 373 casi di decesso per overdose, l’11% in più, rispetto al 2018. Al primo posto come causa di morte c’è sempre l’eroina, ma molto preoccupante è la percentuale del 30,8% di morti per sostanze imprecisate: probabilmente, come afferma la stessa relazione, si tratta delle nuove sostanze psicoattive più di 100 censite ogni anno.

Secondo i risultati dell’ultimo studio, condotto nel 2019, sono 860.000 i ragazzi, pari al 33,9% degli studenti italiani, ad aver utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita (M=37,5%; F=30,1%). Il 25,9% (M=29,5%; F=22,1%) ha riferito di averne fatto uso nel corso dell’ultimo anno (660.000 studenti); tra questi, la maggioranza (90,1%) ha assunto una sola sostanza illegale, la quota restante è invece definibile come “poliutilizzatore”, perché ha assunto due (5,5%) o almeno tre sostanze (4,5%). 35.000, invece, è il numero degli studenti (l’1,4% del totale) che hanno assunto sostanze senza conoscerne prima gli effetti o il contenuto.

«Oggi non importa che cosa buttano giù i giovani, quale sostanza usano, ma perché la usano», dice Simone Feder, psicologo nelle strutture della comunità Casa del Giovane di Pavia dove è coordinatore dell'Area Giovani e dipendenze, autore del blog No Slot” su Vita.it e del libro “Alice e le regole del bosco” edito da Mondadori. «È obsoleto continuare a parlare di droga come solo come un fenomeno. Fenomeno che tra l'altro non si può quantificare solo leggendo i dati delle sostanze che vengono sequestrate. Perché di tutto ciò che non viene sequestrato noi che traccia abbiamo?».

Quello di Simone Feder è un punto di vista «che viene dal basso», come lui stesso ripete. Sono anni che incontra i ragazzi nel boschetto di Rogoredo a Milano, adiacente alla stazione ferroviaria, una delle più grandi piazze di spaccio del nord Italia. «Vedo un ritorno repentino all’eroina, ma forse non ha più neanche senso parlare solo di una sostanza. I ragazzi, e me ne accorgo in comunità, sono polidipendenti».

«Per guardare davvero alle sostanza in maniera diversa dobbiamo prima di tutto allargare il campo della presa in carico che non può solo essere dei servizi, ma deve essere della comunità intera, della società civile. Oggi è obsoleto parlare di droga, dobbiamo invece parlare di malessere, di disagio, capire perché le persone usano le sostanze».

Ma cosa significa esserci? «Partiamo dagli operatori», spiega Feder. «Tra qualche anno non ne avremo più, non perché manchi gente che vuole fare questo lavoro, ma perché in molti non riescono. Per gestire l’urto del disagio, il malessere, non bastano le competenze acquisite sui libri. Oggi non si può “crescere” un professionista se si è distaccati dalla realtà. Bisogna calarsi nel concreto per costruire fin da subito una personalità robusta capace di attutire il colpo».

Aumenta il numero di donne che fa uso di sostanze. «Sempre più ragazze arrivano disperate. Sono intossicate dalle sostanze e riportano davvero ferite nell’anima che sono profonde. Che segnano, che condizionano con dei solchi devastati la vita. Accogliere queste ferite che ti arrivano addosso, questi vissuti, è faticoso. Questa disperazione è forte, forse prima che operatori bisogna essere uomini e donne, essere umani».

Ma per fare davvero prevenzione «dobbiamo costruire una società educativa attenta. Non credo più che debbano essere solo i servizi ad occuparsi della presa in carico. Bisogna proprio cambiare paradigma, uscire dalle comunità. Scuola, associazioni, medici di base…dobbiamo sviluppare nuovi modelli di intervento. L’esperienza del boschetto di Rogoredo insegna, fa riflettere. In uno spazio di indifferenza tra “destra e sinistra”, tra la gente che percorre le strade della stazione da un lato e i relitti umani dall’altro, sì relitti perché fatichi a ricondurre ad uomini queste persone, noi ci siamo inseriti al centro, come una pietra d’inciampo. Come persone che aiutavano a dare fastidio per creare un elemento di rottura. A Rogoredo è bastato introdurre un elemento di disturbo, la nostra presenza, che ha scombinato tutto il paesaggio, le persone hanno iniziato ad interrogarsi. Bisogna essere generatori d’altro».

Ma nessuna di queste persone è irrecuperabile. «Uscire dall’inferno della droga è possibile. Ma solo insieme. La disperazione non può vincere. E non può un territorio non occuparsi delle fragilità e del disagio che lo abitano».


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