Cooperazione & Relazioni internazionali

Agadez, quando la disparità ti colpisce

Il terzo giorno del diario di viaggio porta Daniele Biella tra le vie del centro storico di Agadez e nell'intimo delle storie delle persone rifugiate

di Daniele Biella

Quella di giovedì 28 gennaio è stata una giornata dura. E dire che è iniziata invece in modo del tutto diverso: al mattino presto il primo appuntamento era con la salita all’interno del minareto più famoso d’Africa fatto di terra amalgamata, e siamo riusciti ad arrivare fino in cima, capendo poi che il consiglio del Sultano del giorno prima era ironico, dato che la struttura era in sicurezza ma molto stretta al suo interno e per salire gli ultimi scalini – 99 in tutto, numero sacro – si doveva essere piuttosto snelli di corporatura.

Sbucati dalla cima (ero con Adam il traduttore e Hamza, funzionario Unhcr che mi ha accompagnato), il vento era forte ma la giornata splendida e il panorama mozzafiato hanno reso quei minuti lassù un momento indimenticabile del viaggio.

Con il senno di poi, la carica emotiva positiva della visita al minareto è servita poco tempo dopo, quando Hamza e Adam mi hanno portato a vedere la struttura in cui, con la collaborazione dell’ong italiana Coopi (il cui personale è locale, senza espatriati, come la maggior parte delle organizzazioni non governative qui ad Agadez), sono attualmente ospitati 77 rifugiati respinti dall’Algeria o fuggiti dalla Libia interrompendo così il viaggio dal loro Paese d’origine. Divise in due strutture, una per i 37 uomini, l’altra per le 18 donne e i 22 bambini, le persone rifugiate passano le loro giornate tra corsi di lingua francese, formazione di base, attività artigianali e colloqui psicologici con l’intento di rendere meno pesante l’attesa di qualcosa che per molti di loro non è ancora all’orizzonte: il trasferimento in un'altra nazione in cui ricominciare a vivere.

Sì perché in Niger non c’è futuro per loro e lo sanno, e con estrema dignità portano avanti le loro vite nonostante tutto. Sento le storie di Doris, 22enne ghanese molto determinata che con un ottimo inglese mi racconta i 40 interminabili chilometri a piedi nel deserto una volta che la polizia algerina ha riportato lei e suo marito al confine con il Niger, di Adel che dal Sudan cerca, con la moglie e i due figli, solo un posto dove lavorare come sarto per “dimenticare i problemi” ovvero i traumi subiti dagli attacchi terroristici nel suo Paese che gli hanno portato via tutta la famiglia originaria. E di Ngade, ripudiata dalla famiglia una volta scoperta la sua omosessualità e mandata dal padre a prostituirsi nella città di Douala in Cameroun, prima di scappare verso Nord fino in Libia dove però ha trovato altra violenza, da parte di uomini senza scrupoli che hanno abusato di lei. Insostenibile.

Insostenibili sono anche gli sguardi di queste persone mentre mi raccontano, perché la sensazione di impotenza è tremenda e va al di là dell’empatia che cerco di mettere in gioco in quei momenti. Persone che trovano comunque la forza di sorridere, di sostenersi l’un l’altra, aiutati dal personale umanitario e, spesso, dalla loro fede. Per alcuni di loro, questo nostro viaggio è comunque motivo di speranza: Unhcr ha segnalato a Caritas Italiana alcune famiglie che potrebbero rientrare nei prossimi corridoi umanitari, e quindi per loro c’è l’opportunità di un’intervista di conoscenza per capire se sono idonei al programma.

Finita la visita al centro Coopi, torno nella sede Unhcr di Agadez (non distante scorgo anche la struttura di Medu, Medici per i diritti umani, che promuove un progetto sulla salute mentale dei rifugiati proprio in collaborazione con l'Alto Commissariato Onu). Dove, appunto, lo staff di Caritas Italiana sta svolgendo altri colloqui: li vedo molto provati, anche per loro gli incontri hanno riservato storie dure da ascoltare e rielaborare. Per quanto mi riguarda, ho chiesto di potere girare a piedi tra le vie del centro storico della città, dove incontrare le persone e “tuffarmi” nella quotidianità per alleggerire i pensieri: detto fatto, mi sono trovato nel turbinio di una città comunque indaffarata, in particolare nel mercato artigianale cittadino – dove vengono realizzati manufatti sia per i locali sia per lo scarso turismo di questi anni – e tra le vie delle case in terra dichiarate come il minareto patrimonio dell’Unesco, dove giovani muratori stavano costruendo a mani nude parti di abitazioni capaci di resistere alla stagione delle piogge e al clima secco estivo. Sono entrato, con tutto il rispetto del caso, anche in alcune case, e vedere la “cucina” composta da due pentole e del carbone per terra, una sala senza divani e la mancanza di un bagno vero e proprio, ha risottolineato per l’ennesima volta nella mia vita il concetto di “disparità” di opportunità in questo mondo dove pochi hanno – abbiamo – tanto e molti, troppi, hanno poco o nulla.

Menomale che c’è la scuola, è stato il mio ultimo pensiero prima di terminare l’ultima giornata completa ad Agadez (domani riprendiamo il volo delle Nazioni Unite per tornare a Niamey): vedo i bambini che escono dalle loro case con la cartella in spalla è capisci la potenza dell’educazione, sancita dai discorsi dei più grandi che mi dicono più volte “l’unica speranza è che i nostri figli riescano a studiare”.

Tra l’altro, sono giorni concitati, con gli insegnanti che alternano giorni di sciopero per chiedere l’aumento del loro risicatissimo stipendio. Vedo anche bambini che devono trasportare sacchi pesanti, raccogliere il carbone, alcuni piccoli orfani che chiedono cibo, altri che invece mi sorridono e mi guardano con estrema curiosità prima di ricambiare il mio saluto, che in epoca di pandemia è un’alzata di mano o, al massimo, un pugno contro l’altro.

Ricambio il sorriso, dove è possibile, e cerco di portare serenità. Ma mi porto al ristorante e nella stanza dell’hotel, fino al minuto prima di prendere sonno, quel pensiero lì che s’insinua sempre: nascere in un posto in cui puoi permetterti tutto o niente è solo questione di fortuna. O sfortuna.


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