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Così il Covid ha allargato il gender gap sul lavoro

Su 4 posti di lavoro persi nel 2020, 3 li hanno persi le donne. «Questa crisi a differenza di quella del 2008 ha colpito più le donne che gli uomini a due livelli» dice la sociologa Chiara Saraceno: «Nel mercato del lavoro e per l’effetto della chiusura di servizi e scuole, per cui si sono trovate a fare un doppio lavoro in contemporanea, doppio lavoro che di solito fanno in sequenza».

di Laura Solieri

Secondo un’indagine Istat, su base annua, nel 2020 su 4 posti di lavoro persi, 3 sono stati persi da donne. La tipologia di contratto ha inoltre influito pesantemente su chi ha perso il lavoro: il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione hanno salvaguardato, almeno per ora, soprattutto il lavoro dipendente a tempo indeterminato, mentre sono stati colpiti i posti di lavoro a termine e le varie forme di collaborazioni.

Sia nella crisi del 2008 sia in quella della pandemia, chi ha perso decisamente di più sono le persone giovani, quelle cioè che, come confermano i dati, hanno in prevalenza rapporti di lavoro non a tempo indeterminato. In particolare, gli impatti del Covid sul mondo delle donne, tra lavoro, genitorialità, cura dei familiari fragili sono drammatici.

Come commenta la sociologa Chiara Saraceno, protagonista dell’incontro online “È davvero andato tutto bene? Le donne nella pandemia” che si terrà martedì 9 marzo, alle ore 18.30, in diretta sulla pagina Facebook della Fondazione Casa del Volontariato, ente finalizzato al sociale della Fondazione CR Carpi, la pandemia si sta rivelando di lunga durata e strisciante e l’incertezza è diventata quasi il tratto distintivo del nostro vivere quotidiano. «Un’incertezza costante, senza una previsione ragionevolmente certa della fine. La lentezza delle vaccinazioni fa sì che questa prospettiva della fine si sia molto diluita e allungata, delineando scenari di un mercato del lavoro che ci dicono che non è vero che tutto ciò che si è fermato riprenderà», afferma Saraceno. «Molte aziende, soprattutto quelle piccole, difficilmente riapriranno e questo in parte rappresenta anche una botta di realismo che si contrappone all’assenza di una valutazione realistica del mercato perpetuata nel tempo». Non si può pensare a un’occupazione senza sviluppo come si è sempre fatto, anche ai tempi in cui l’occupazione teneva ugualmente e non si capiva nemmeno bene come, perché dietro non c’era già più una forza economica: noi a differenza di altri Paesi non siamo ancora usciti dalla crisi del 2008, per questo in Italia è così duro, adesso, l’impatto della pandemia.

Promosso in occasione della Giornata internazionale della donna insieme a Udi (Unione Donne in Italia) e Cif (Centro Italiano Femminile), e con il contributo di Aimag, che ha anche devoluto 1.000 euro in favore dei progetti delle due associazioni, l’incontro online del 9 marzo con Chiara Saraceno vuole rappresentare una occasione preziosa per comprendere meglio quali soluzioni ricercare e proporre, quali strategie mettere in atto, quali azioni svolgere per migliorare la situazione e non rischiare di perdere terreno sul campo della parità di genere e della conciliazione vita-lavoro.

«Questa crisi a differenza di quella del 2008 ha colpito più le donne che gli uomini a due livelli»: conclude Saraceno. «Nel mercato del lavoro per il tipo di occupazioni e per il tipo di contratti di lavoro non protetti dal blocco dei licenziamenti che le vede maggiormente coinvolte. Le donne, poi, soprattutto quelle con carichi famigliari, sono state colpite anche per l’effetto della chiusura dei servizi e delle scuole per cui si sono trovate a fare un doppio lavoro in contemporanea, doppio lavoro che di solito fanno in sequenza».

In questo periodo storico, qual è la cosa che la spaventa di più?
Mi spaventa il danno che stiamo facendo a una generazione di giovani e di piccoli; se non ci rendiamo conto della necessità di compensarlo, correggerlo, accompagnarne l’uscita sarà veramente drammatico l’esito in termini di capitale umano. Si sono sottovalutate tante cose, a partire dal danno che sta avvenendo nella scuola perché troppo facilmente si è pensato che bastasse un po’ di didattica a distanza e invece bisogna pensare a delle iniziative di accompagnamento, arricchimento, rafforzamento di medio lungo periodo. Così come non si è pensato a coloro che si affacciavano sul mercato del lavoro nel momento in cui il lavoro spariva, già dal 2008.

Cosa invece la fa sperare di questo periodo storico, se di speranza possiamo parlare?
Mi fa sperare il fatto che ci sono delle risorse che potremmo utilizzare bene che negli ultimi decenni non c’erano e quindi se usate con intelligenza potrebbero fornire quella leva necessaria non tanto per recuperare il perduto ma per guardare avanti, verso un mondo migliore. Mi preoccupa il rischio che siano usate male più che se saranno sprecate: non è tanto lo spreco quanto il fatto che nel pensare a come investire queste risorse non si stia sufficientemente attenti a evitare che la modalità di ripresa non accentui le disuguaglianze di classe sociale, istruzione, di genere… Spero che ci sia questa attenzione. Benissimo investire ad esempio nel digitale, l’importante è però attrezzare chi ancora non lo è per poter cogliere questa occasione, se no rischiamo ulteriori disuguaglianze. Mi preoccupa tutto questo, ma non nel senso che sono pessimista ma che deve essere una preoccupazione che accompagna ogni nostra scelta su dove e come investire.

La rete Alleanza per l’Infanzia di cui lei è coordinatrice, su cosa sta lavorando in particolare in questo periodo?
Insieme alle altre nove reti con cui abbiamo fatto la sovrarete EducAzioni, ci siamo molto concentrati nel mettere a fuoco la questione della povertà educativa che è esplosa con la pandemia. Stiamo spingendo perché ci sia un forte investimento nei servizi educativi della prima infanzia per contrastare le disuguaglianze di partenza nella scuola nel suo complesso e perché si ampli l’offerta di nidi a stanziamento pubblico, per arrivare nei prossimi 3 anni a un 33% di copertura almeno regionale, in modo che siano gratuiti o semigratuiti. Vorremmo, nelle scuole dove è previsto, un tempo pieno riempito non solo di materie scolastiche ma in collaborazione con la società civile, dove la scuola pubblica è un perno forte e scandisce un tempo pieno ricco di relazioni, possibilità, competenze.


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