Welfare & Lavoro

Dall’emergenza educativa all’estate ragazzi: alla ricerca del tempo perduto?

Nel dibattito di questi mesi si è fatta strada un’idea sorprendente, quella della scuola come alfa e omega del "recupero" di ciò che i bambini e i ragazzi in questo anno hanno perso. Pare una soluzione ragionevole, in realtà ci riporta indietro nel tempo, agli anni Ottanta. Davvero il ruolo del Terzo settore oggi può essere ancora soltanto quello di "fornitore"? Un contributo alla riflessione

di Juri Pertichini

«I bambini e i ragazzi sono rimasti indietro: dobbiamo recuperare il tempo perso!». Questa affermazione, sentita tante volte in questi mesi, ha forti riflessi nelle famiglie e negli adulti. Proviamo ad approfondirla.

I bambini e i ragazzi sono rimasti indietro: in che senso? A livello di istruzione? Certamente, lo stanno cominciando a dire le ricerche e i dati sull’abbandono scolastico alle secondarie di secondo grado. DAD (e DDI) e processi di apprendimento didattico non vanno d’accordo e sebbene ciò non sia l’oggetto di questo intervento, lo possiamo dare per assunto. I bambini e i ragazzi sono rimasti indietro – e anche questo sta cominciando finalmente ad essere riconosciuto – nello sviluppo e nella pratica delle loro competenze sociali, aggregative, emotive, affettive: limitazione della mobilità, del gioco, della vita in gruppo, della mediazione dei conflitti, dell’incontro dei corpi e delle facce, della sperimentazione del sé con i coetanei, dell’acquisizione dell’autonomia… Tant’è che si parla di sindrome della capanna, disturbi dell’umore e del sonno, insorgenza di paure e timori, conseguenze fisiologiche e psicofisiche, etc. Loro, i minorenni, hanno “questo” presente, non c’è una “normalità a cui tornare” per il loro presente: si hanno 8, 9, 14 o 16 anni una volta sola. Non c’è un appello. Dunque, sotto questo profilo – qui non si intende discutere se fosse/sia o no necessario rispetto alla pandemia, si va al risultato – bambini e ragazzi sono certamente “rimasti indietro”.

Secondo passaggio: «dobbiamo recuperare il tempo perduto». Di nuovo, in che senso? Didattico? E come? È evidente che è il perdurare delle situazioni di DAD e DDI a comportare effetti negativi negli apprendimenti scolastici, perché un normale manuale di pedagogia delle superiori ci ricorda che gli apprendimenti (tutti gli apprendimenti) sono modulati dalle relazioni affettive/contestuali e occorrono in relazione anche agli stati emotivi: da soli, senza comunità di riferimento “presente”, in un contesto che ogni media rimanda una realtà emergenziale, la didattica ha fatto quello che poteva (chi scrive pensa sia insufficiente, ma in un anno le evoluzioni sono oggettive). I/le docenti hanno lavorato non di meno, ma di più, reinventandosi moduli e modelli, e in pochi mesi hanno svolto un “aggiornamento” epocale.

Dunque, il “tempo perso” come si recupera? Andando di più a scuola, in estate (o anche in estate), si è detto, per i più bisognosi (peraltro, misurati come?). E si è quindi proceduto. Chiediamoci: con quali obiettivi?

Bambini e ragazzi sono certamente “rimasti indietro”: a livello di istruzione ma anche di competenze sociali, affettive, aggregative. Come si recupera il "tempo perso"? Andando di più a scuola, in estate (o anche in estate), si è detto. Soprattutto per i più bisognosi (peraltro, misurati come?). E si è quindi proceduto. L’idea che si è affermata è che la scuola, in quanto istituzione, sarà il perno di questo “recupero”, al più ricordando che non si tratta solo di apprendimenti formali. Sembra la chiusura del cerchio, ragionevole. E invece a me pare la macchina del tempo di Ritorno al futuro

Juri Pertichini

L’idea che si è dunque affermata è che la scuola, in quanto istituzione, è/sarà il perno di questo “recupero”, al più ricordando che non si tratta solo di apprendimenti formali. Si dispone quindi un fondo di 150 milioni per «… supportare le istituzioni scolastiche nella gestione della situazione emergenziale e nello sviluppo di attività volte a potenziare l'offerta formativa extracurricolare, il recupero delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di gruppo delle studentesse e degli studenti anche nel periodo che intercorre tra la fine delle lezioni dell'anno scolastico 2020/2021 e l'inizio di quelle dell'anno scolastico 2021/2022», precisando che «… le istituzioni scolastiche ed educative statali provvedono entro il 31 dicembre 2021 alla realizzazione degli interventi o al completamento delle procedure di affidamento degli interventi, anche tramite il coinvolgimento, secondo principi di trasparenza e nel rispetto della normativa vigente, di enti del terzo settore e imprese sociali» (cfr DL 22/3/21 n. 41, art. 31).

Sembra la chiusura del cerchio, ragionevole. E invece a me pare la macchina del tempo di Ritorno al futuro, oltre che un testo che contiene alcune affermazioni su cui vale la pena soffermarsi.

Innanzitutto la scadenza: se è indicata al 31 dicembre, non tutte le iniziative saranno legate all’estate. In secondo luogo i destinatari: non bambini e ragazzi in quanto persone, ma studenti e studentesse. Non è la stessa cosa, essere definiti in ragione di una funzione. Si tratta, comunque, di “chi va a scuola”.

Ma è il terzo punto quello che realmente fa accendere la DeLorean di Martin McFly per riportarci al 1985. Proviamo a dirlo con parole di oggi: la socialità, la vita di gruppo, le competenze relazionali, la fiducia in se stessi, etc. sono “skills” che sicuramente si sviluppano a scuola ma non nell’ambito della mission didattica dell’istituzione, bensì in ragione del suo essere “comunità” (in prima istanza scolastica e in seconda battuta – e questa è una recente evoluzione – parte della comunità territoriale, intesa in senso educante). Del suo essere quindi contesto di gruppo che “mischia le carte” delle provenienze, delle culture, delle sensibilità. Ciò che “è stato perso” dai minorenni in questo lungo anno di emergenza è – ormai lo vedono tutti – la loro considerazione (se mai l’hanno avuta) di cittadini con istanze proprie da rispettare: la scuola ha chiuso per prima e ha aperto per ultima; ha chiuso anche quando le responsabilità non erano sue (ma dei trasporti, ad esempio).

Ma è il terzo punto quello che realmente fa accendere la Delorean di Martin Mc Fly per riportarci al 1985. La socialità, la vita di gruppo, le competenze relazionali, la fiducia in se stessi… sono “skills” che sicuramente si sviluppano a scuola ma non nell’ambito della mission didattica dell’istituzione, bensì in ragione del suo essere “comunità”. Del suo essere quindi contesto di gruppo che “mischia le carte” delle provenienze, delle culture, delle sensibilità.

Juri Pertichini

Che questo sia stato fisiologico in un Paese in cui le risorse per l’infanzia e l’adolescenza sono considerate un lusso ovvero che occorrono solo in casi “emergenziali”, è un dibattito da svolgere altrove. In questa sede il discorso è un altro e riguarda la distinzione fra processi educativi formali e non formali (tralasciando in questa sede quelli “informali”).

L’ambito degli apprendimenti non formali e formali fu introdotto ufficialmente per la prima volta nel “Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”, varato dalla Commissione delle Comunità Europee il 30.10.2000 a seguito del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 e in quella sede si precisarono i termini di un dibattito culturale e pedagogico vecchio di almeno trent’anni, affermando che «l’apprendimento formale si svolge negli istituti di istruzione e di formazione e porta all’acquisizione di diplomi e di qualifiche riconosciute» mentre «l’apprendimento non formale si svolge al di fuori delle principali strutture d’istruzione e di formazione e, di solito, non porta a certificati ufficiali. L’apprendimento non formale è dispensato sul luogo di lavoro o nel quadro di attività di organizzazioni o gruppi della società civile (associazioni giovanili, sindacati o partiti politici). Può essere fornito anche da organizzazioni o servizi istituiti a complemento dei sistemi formali (quali corsi di istruzione artistica, musicale e sportiva o corsi privati per la preparazione ad esami)». Sebbene alcune parti siano superate (ad esempio oggi si parla di certificazioni di competenze non formali), è evidente che l’area della socialità, del gioco, delle relazioni interpersonali si sviluppi in contesti in gran parte non formali (è anche teorizzato nella definizione); ciò, semplicemente in ragione della “non formalità” (intesa in senso di “istituzione”) intrinseca del contesto.

Questo non toglie niente, anzi, alla scuola, a cui viene precisato un ruolo decisivo e che viene indicata anche come ambito del quale l’apprendimento non formale può essere complementare. Dire invece che i compiti – in toto – di apprendimento non formale (recuperare la socialità, la proattività, la vita di gruppo) afferiscono alla scuola è improprio.

E infatti si invoca la collaborazione con il Terzo Settore (e delle imprese sociali). Così si faceva nel 1985: nei quartieri popolari, dove c’era più bisogno (secondo una lettura istituzionale) e i sistemi scolastici in estate ospitavano corsi e laboratori, al più con la collaborazione di animatori esterni. Lo riprenderemo fra poco.

Il quarto punto è legato al Terzo Settore. Tralasciando il fatto che le imprese sociali sono parte del Terzo Settore ai sensi del Codice del TS del 2017 (DLgs 117/17) e quindi ripeterle è pleonastico, quale ruolo si assegna ad esso? Sembra – e chi opera sul campo non può non notarlo – che sia quello dell’expertise educativo, animativo, ludico (e infatti si richiamano i criteri di trasparenza, dimenticando anche la stessa legislazione italiana che dal settembre 2020 indica per gli ambiti educativi e sociali la possibilità di attivare invece strumenti di coprogettazione e amministrazione condivisa, abbandonando gli strumenti di competizione/trasparenza tipici di bandi e “call” tradizionali). Il Terzo Settore “ha” queste competenze, ma le aveva già nel 1985. Oggi, sia nel dibattito culturale, sia negli ambiti di progettazione e a livello normativo con il Codice del Terzo Settore, associazioni volontariato e imprese sociali concorrono alla realizzazione di attività di interesse generale, per perseguire il “bene comune” e in riferimento ad alcuni articoli della Costituzione quali il 118. Trasposto nel nostro discorso, concorrono alla costruzione e implementazione delle Comunità Educanti (si rimanda ai Progetti di contrasto alla Povertà Educativa e al lavoro di persone come Marco Rossi Doria).

Il Terzo Settore cioè è chiamato ad essere “parte” della dinamica culturale, delle proposte, delle relazioni, delle costruzioni delle comunità (educanti). Non è “solo” un fornitore che può darti il costruttore di aquiloni o il mediatore dei conflitti. Questo poteva esserlo, appunto, nel 1985.

Quale ruolo si assegna al Terzo Settore? Sembra – e chi opera sul campo non può non notarlo – che sia quello dell’expertise educativo, animativo, ludico. Come nel 1985. Ma oggi il Terzo Settore è chiamato ad essere “parte” della dinamica culturale, delle proposte, delle relazioni, delle costruzioni delle comunità (educanti). Non è “solo” un fornitore che può darti il costruttore di aquiloni o il mediatore dei conflitti

Juri Pertichini

Tiriamo dunque le fila di questa analisi critica e dei rischi che stiamo correndo.

Da una parte il dibattito sui “necessari” recuperi per i minorenni non è a nostro parere sufficientemente articolato.

Ci sono ritardi, vero. Ma nella loro dimensione didattica e dell’apprendimento formale necessitano di alcuni strumenti formali, legati all’organizzazione stessa delle scuole e della didattica, tema in questa sede solo sfiorato.

E nella loro dimensione non formale è invece un errore – e un balzo indietro di circa 40 anni – tornare ad affermare che il perno di ogni dinamica educativa – anche quella non formale – debba essere la scuola: non può, non ne ha non solo la mission, ma nemmeno le competenze; infatti avrebbe bisogno di expertise esterno.

Sono invece gli attori della comunità – e in primis il Terzo Settore che è definito dal 2017 proprio in ragione di questa mission di perseguimento di interessi collettivi e del “bene comune” – ivi compresa la scuola, a dover assicurare processi di educazione e apprendimento non formale. Si chiama Comunità Educante e non è la strategia per trovare nuovi spazi per fare scuola, come un testo ministeriale purtroppo scrisse tristemente nel maggio 2020.

Questi attori esprimono culture che si integrano in una visione di comunità la quale assume i bisogni (e i diritti) come chiave di volta. Anzi, qualcuno (in questo caso l’associazione in cui chi scrive milita, seppur e per fortuna non da sola) afferma che in questa dinamica di Comunità Educante i minorenni stessi debbano essere parte attiva e non solo essere “destinatari” (tra poche settimane ricorre peraltro il 30nnale della ratifica in Italia della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza che indica nella soggettività dei diritti e nella partecipazione la rivoluzione copernicana dei diritti dei minorenni). Nessuno di questi attori “può permettersi” (il lusso) di essere “solo fornitore”. O giochi, oppure non sei nella comunità educante.

Proviamo dunque a starci veramente, nel futuro attuale, tornando “indietro” da quel lontano 1985. I “centri estivi” (le attività estive in genere, anche i campi, anche i laboratori di piazza, etc.) sono stati e sono un’eccezionale occasione per democraticizzare le opzioni educative del tempo libero. Per far conoscere parti inconsuete delle città e dei loro (d)intorni sia a chi non si poteva muovere dal proprio quartiere che a tutte le altre persone. Sono stati l’occasione per ribadire il carattere educativo, culturale, formativo delle nostre città e paesi in senso storico, geografico, ludico. Sono stati l’occasione per “giocarsi” le città (non sempre con successo, invero, ma almeno provandoci) e allargare i confini dell’educazione e dell’apprendimento. Sosteniamoli in questo (metterci fondi significa allargare la platea dei minorenni e delle famiglie, non arricchire il Terzo Settore) e integriamo anche “a monte” le policy, senza riprodurre recinti culturali che sono stati superati.

Tornare ai “laboratori a scuola” o ai “campus (solo) sportivi” o alle occasioni di “recupero della socialità” per i bisognosi… ci porterebbe non solo in quel passato per cui non si poteva che definire per negazione l’educazione non formale con il termine “extrascuola”, ma in una vera e propria distopia.

*Juri Pertichini – Vicepresidente Arciragazzi Nazionale

Foto Unsplash


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