Welfare & Lavoro

Non autosufficienza: 3 punti per non arrivare tardi

È atteso in Consiglio dei ministri l'annunciato il disegno di legge delega per la riforma della non autosufficienza proposto dalla commissione interministeriale istituita ad hoc e presieduta da mons. Paglia. Un momento storico per tanti, meno per i tre milioni di anziani non autosufficienti che oggi si contano in Italia: per loro la riforma potrebbe arrivare troppo tardi

di Luca Iacovone

“Gli anziani non sono materiale di scarto”, ha ricordato Papa Francesco la scorsa settimana, ma l’attenzione e l’entusiasmo per i passi importanti che si stanno compiendo per la non autosufficienza, rischiano involontariamente di creare altri scarti, se diventano l’alibi per tornare a rimandare le tante questioni che il Covid ha scoperchiato, ai tempi che richiederà la riforma. Ci vorranno anni prima che le buone idee su cui in molti si stanno confrontando potranno – ce lo auguriamo – diventare prassi operative su tutto il territorio nazionale. E intanto? Cosa possiamo fare oggi, ad esempio, per Carlo (92 anni), Maria Bruna (98 anni), Donato (66 anni) e agli altri cento anziani ospiti della Residenza Brancaccio di Matera, che dirigo con la cooperativa il Sicomoro?

Chi ha avuto l’opportunità di confrontarsi e crescere in questi anni con The Economy of Francesco ha potuto sperimentare un metodo di lavoro diverso, che potrebbe tornare utile anche in questo caso. Provare a tenere insieme entrambe queste tensioni: da un lato gli obiettivi a cui mirare – la visione di economisti e studiosi – e dall’altro lato la voce di ciò che già c’è – la concretezza di imprenditori e changemakers di tutto il mondo. Nel villaggio tematico di EoF a cui ho preso parte, work and care, ho potuto confrontarmi su questi temi con docenti universitari, studiosi e altri manager della cura come me.

Da quei confronti, dagli approfondimenti suggeriti, dall’invito che il Papa ci ha rivolto ad Assisi, abbiamo individuato tre aree di attenzione che con la cooperativa il Sicomoro stiamo provando a tradurre operativamente. Le elenco di seguito.

La prima area su cui occorre fissare l’attenzione, anche in vista della riforma in discussione, è il forte legame tra assistenza e territorio. Negli ultimi anni si sono moltiplicati ovunque veri e propri ipermercati dell’assistenza, palazzoni tutti uguali ricchi di marmi scintillanti e luci bianco ghiaccio. La Basilicata è un caso a parte: qui il fenomeno dell’industrializzazione della cura è stato molto limitato anche grazie, per assurdo, all’immobilismo delle politiche regionali che di fatto hanno congelato tutto a qualche decennio fa, lasciando il problema della non autosufficienza degli anziani a carico delle “figlie femmine” o delle sole famiglie in grado di sostenere integralmente i costi dell’assistenza. Questo ha reso il mercato lucano poco appetibile per i grandi gruppi e al contempo ha generato un interessante laboratorio in cui si confrontano diverse realtà del terzo settore che hanno saputo costruire negli anni un modello di assistenza integrata più artigianale e aderente ai bisogni reali dei contesti locali. Strutture residenziali profondamente interconnesse con le realtà sociali che abitano, che sono diventate luoghi in cui le comunità locali si riconoscono e si incontrano. La sfida ora è capire come garantire la possibilità di una giusta assistenza per tutti, con adeguate politiche di sostegno, tutelando queste esperienze e il protagonismo creativo che ha saputo dimostrare il terzo settore.

La seconda area è la famiglia. Una delle cose che all’inizio del mio lavoro in RSA non riuscivo proprio a capire era il senso di colpa atroce con cui i figli puntualmente fanno i conti al momento in cui decidono di affidare il proprio genitore alla cura di una struttura. Una reazione che mi sembrava del tutto illogica: in residenza è garantita un’assistenza più qualificata e la qualità del tempo da poter dedicare al proprio caro migliora (ci sono altri che devono occuparsi di tutte le incombenze che prima rubavano ore e ore in giro per uffici e farmacie). Tutto il tempo a disposizione può finalmente essere dedicato al proprio caro. Il problema è proprio lì: a un certo punto tutto quel tempo viene come svuotato di senso: “hai mangiato? – che hai mangiato? – … – …”. È un silenzio pesante, inizi a cercare qualche foto da mostrare sul cellulare “chi è? – l’hai conosciuto? – …” c’è un vocabolario intero che sembra essere saltato, non si trovano le parole. Allora – tipicamente – inizia la fase dell’ispezione: diventa necessario trovare qualcosa che non va, anche se piccola, insignificante, da poter lamentare con veemenza, fino all’esclamazione “che non l’abbiamo portato qui perché non volevamo prendercene cura noi, ma…”. È saltato il vocabolario della cura ed è difficile trovarne un altro quando ormai pensi di aver delegato ad altri quello che ancora avverti come un tuo bisogno: prenderti cura della persona che ami. Il Covid ha spostato tutta l’attenzione sulle “visite” impedite ai figli degli ospiti delle rsa. Ma il problema non è la visita, i dieci minuti o l’ora di parlatorio venuta meno. Per investire davvero sulle relazioni bisogna riabilitare i figli alla cura dei genitori, riuscire a coinvolgerli anche nelle attività assistenziali, poter dire loro: “non vogliamo sostituirti, ma aiutarti”. Perché finché puoi occuparti di una persona, anche solo aiutandola a mangiare, a pettinarsi o a truccarsi, per quanto compromesso sia il suo stato di coscienza, quella persona avrà qualcosa da restituire. Il mercato della cura che stiamo riformando deve ripartire da qui: anche dietro la non autosufficienza più grave non c’è la resa di una famiglia che getta la spugna, da qui nasce il senso di colpa e a volte l’elaborazione anticipata di un lutto non ancora avvenuto. Ma la mano che va tesa ad una famiglia nel suo bisogno inalienabile di continuare a prendersi cura del proprio caro. Anche le rsa vanno ripensate in questa direzione, noi ci stiamo provando, in situazioni specifiche, per piccoli passi, ma è ancora troppo poco e maledettamente difficile districarsi tra responsabilità e rigidità normative. Tra i principi fondamentali della riforma, e ancor prima nei piani di lavoro di ogni residenza, bisognerebbe sancire questo che si potrebbe definire il principio di sussidiarietà verticale nella cura.

Il terzo aspetto è la domiciliarità. La narrazione del Covid ha drogato e banalizzato il confronto su questo tema. Invecchiare tutti a casa propria è una bellissima favola, che in tanti casi si traduce nell’incubo di mesi se non anni passati in lunghi e solitari dormiveglia davanti alla televisione sulla stessa poltrona che diventa il letto di notti insonni e il nascondiglio perfetto di inutili pillole che non bastano mai a riequilibrare il ritmo sonno/veglia. È stato detto e scritto tanto in merito non voglio tornarci, mi interessa piuttosto capovolgere il tema: iniziamo a riportare a una dimensione domestica chi da casa è stato buttato fuori a causa di leggi insensate. Penso alle persone con malattie psichiatriche, che dopo una vita passata in piccole comunità alloggio, compiuti i 64 anni vedono concludersi, uno ad uno, tutti i progetti e le attenzioni costruite su misura per loro perché – ex lege – diventano anziani e basta, come tutti gli altri. Ma a differenza degli altri, sono costretti a lasciare la casa/comunità dove hanno vissuto, i percorsi che hanno seguito, e spesso le residenze per anziani sono l’unica soluzione possibile. A 65, 67 anni si trovano in strutture in cui l’età media è vent’anni più alta e anche consentire loro di mantenere le autonomie guadagnate con fatica diventa molto complicato.

Partiamo da qui, senza attendere la riforma, per sperimentare un nuovo rapporto tra domiciliarità e residenzialità, senza porre le due soluzioni in contrapposizione, ma immaginando l’una a servizio dell’altra. Le RSA devono diventare gli hub attraverso cui si rende possibile e sostenibile la vita in domicili di prossimità. Iniziamo da questo target, troviamo gruppi appartamento in condomini vicinissimi alle strutture che li hanno in carico e torniamo a lavorare sulla loro autonomia. Una Rsa diffusa sul territorio, che si allarga per cerchi concentrici: dalla residenzialità integrale fino all’assistenza a distanza. Investire sulle rsa quali hub assistenziali sul territorio consente una notevole ottimizzazione delle risorse (personale infermieristico e assistenziale è già formato e operativo h24). Assicurano inoltre una presa in carico dell’anziano a partire dal suo progetto assistenziale e non dal tipo di assistenza di cui necessita in una dato momento, senza porre in concorrenza domiciliarità e residenzialità: è l’unica via per garantire davvero un continuum assistenziale sempre aderente ai bisogni reali. Secondo un principio che potremmo definire di sussidiarietà orizzontale della cura.


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