Sanità & Ricerca

Sanità, gli eroi della pandemia rischiano di diventare reduci

Il Covid-19 ha catalizzato le criticità delle professioni di cura. Una ricerca dell'Università Bicocca di Milano espone numeri preoccupanti di operatori in burnout. Fenomeno che, in prospettiva, per via di organici difficilmente rafforzabili nel breve periodo, rischia di diventare strutturale. I pareri di Walter Ricciardi e Mario Melazzini su Morning Future

di Giampaolo Cerri

Burn out, letteralmente “bruciato” in inglese.

Due anni e più di pandemia hanno portato alla conoscenza di tanti quella che, una volta, era un’espressione per addetti ai lavori. Col burnout, ormai diventato un sostantivo, infatti si individuava il punto di logoramento delle professioni di cura, sanitarie o sociali, quando un medico, un infermiere, un educatore, uno psicologo, arrivavano al loro capolinea motivazionale, esaurite le risorse personali, psichiche prima che fisiche, per dedicarsi al proprio lavoro.

E di medici, infermieri, operatori “bruciati” dall’enorme peso emotivo del loro lavoro durante il Covid-19, si è parlato spesso ma non sempre partendo da dati oggettivi. Sono infatti poche le ricerche che hanno misurato la sofferenza degli operatori, ossia quel mix di ansia, depressione, stress che dalle condizioni lavorative in pandemia veniva originato.

Recentemente l’ha fatto l’Università degli Studi di Milano-Bicocca per il sindacato medico ANAAO-ASSOMED Lombardia, fotografando quella che la Organizzazione Mondiale della Sanità – Oms riconosce come una sindrome in grado di influenzare lo stato di salute di categorie occupazionali maggiormente soggette a stressor lavorativi cronici, e il burnout è stato rilevato in misura significativa.

A risentirne, spiegano i ricercatori dell’ateneo milanese, “non è infatti solamente lo stato di salute dei soggetti coinvolti nella ricerca, bensì anche le prestazioni lavorative, le quali risultano essere nient’altro che ‘camera dell’eco” del malessere psicofisico indagato”.

L’indagine, eseguita tra novembre 2021 e marzo 2022, si proponeva di stimare la prevalenza, nei medici lombardi, di sintomi riconducibili al fenomeno; di indagarne le possibili connessioni con variabili demografiche e occupazionali; di valutare l’impatto della pandemia sulla sintomatologia presente nei medici, “nell’ottica del rafforzamento e dell’implementazione di strategie atte alla tutela della salute psicofisica del personale”.

Che cosa ne è emerso? Che su 958 medici lombardi, il 71,6% sospetta di aver sofferto di burnout, mentre il 59,5% teme di poterne soffrire in futuro. “Il rilievo psicometrico”, aggiungono i ricercatori di Bicocca, “illustra inoltre come la prevalenza effettiva di una sintomatologia di rilievo clinico riconducibile al burnout sia pari a 18,5%, mentre quella riconducibile a disturbi dello spettro ansioso e depressivo è pari a 31,9% e 38,7%. A soffrire maggiormente sono le donne: per loro significa ansia, depressione e una percezione bassa di auto-efficacia, quest’ultimo elemento è condiviso dai medici specializzandi”.

“Lo studio fornisce informazioni utili alla pianificazione di interventi preventivi e gestionali finalizzati alla tutela della salute psicologica dei medici. Emerge, inoltre, una forte corrispondenza tra ciò che rilevano gli strumenti psicometrici oggettivi e il vissuto soggettivo dei medici che hanno preso parte alla ricerca”, sottolinea Edoardo Nicolò Aiello, psicologo e dottorando in Neuroscienze all’Università di Milano-Bicocca.

Del team di ricerca fa parte anche Ines Giorgi, psicologa e psicoterapeuta, che sottolinea “la necessità di pensare, strutturare e promuovere programmi di valutazione accurata del disagio lavorativo per tutti gli operatori e segnatamente per il genere femminile e le persone con minore anzianità di servizio. Il progetto rappresenta una sfida importante alla quale non è possibile sottrarsi se si intende contenere il burnout con tutti i suoi correlati di perdita di salute, professionalità, efficacia lavorativa e soddisfazione dei pazienti”. Secondo la psicologa, “bisognerebbe affrontare la cultura del prendersi cura di sé come operatori sanitari già durante il percorso di studi e metter a disposizione nelle aziende sanitarie specifici setting di supporto”.

Al di là del periodo emergenziale, gli scenari della Sanità italiana sono tali da far pensare che, quello del rischio della perdita delle motivazioni, sarà un rischio strutturale che riguarderà quanti si devono occupare della nostra salute.

Quasi il 20% del campione accusa sintomi riconducibili al burnout, mentre più del 30% ansia e depressione di significato clinico. È un dato allarmante”, aggiunge Stefano Magnone, medico e segretario regionale di ANAAO-ASSOMED Lombardia.

Secondo il sindacato medico, “le problematiche causate dall’espansione a macchia d’olio di questo fenomeno sono state largamente discusse negli ultimi tempi, aumentando l’awareness anche tra chi non è direttamente coinvolto nell’ambito sanitario. Lo stress lavorativo cronico, o sindrome del burnout, insorge quando le richieste del lavoro superano le capacità del lavoratore di affrontarle, intaccando la salute psicofisica dell’individuo. I medici sono i professionisti maggiormente a rischio, specialmente il sesso femminile. A peggiorare le condizioni lavorative, oltre alla carenza di risorse e ai ritmi lavorativi isterici in cui siamo costretti, è stata la pandemia: l’87.4% dei medici lombardi dichiara come abbia avuto effetti di media o grave entità sul proprio benessere lavorativo”.

Come proprio il Covid-19 ha messo in evidenza, il nostro sistema soffre di una pesante carenza complessiva di organico, nata sulla forbice dei nuovi bisogni – che l’emergenza ha catalizzato – e della difficoltà di un completo ricambio delle posizioni di chi lascia per motivi d’età e viene cioè collocato a riposo.

Morning Future ha interpellato due uomini di Medicina e, nel contempo, due autorevoli figure della Sanità italiana, come Walter Ricciardi, professore di Sanità pubblica alla Cattolica, consigliere del Ministro della Salute sul Covid-19 e Direttore scientifico degli Istituti Maugeri, e Mario Melazzini, medico, che ha ricoperto molti ruoli nella politica sanitaria e della ricerca, in Lombardia, al CNR, all’Agenzia italiana del farmaco – AIFA, nell’associazionismo.

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