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Famiglia & Minori

La fatica e la gioia di curare quei ragazzi che pensavamo “rotti”

La comunità di neuropsichiatria per minori Pani e Peschi, di Milano, ospita ragazzi tra i 14 e i 17 anni. «Il nostro lavoro- spiega la direttrice Simona Novara- ha senso quando riusciamo a far rifiorire un ragazzo o una ragazza che sembrava rotto, difettoso. Un giovane con il quale i tentativi di cura più leggeri non avevano funzionato, con i quali la società era in debito perché non era stata capace di intervenire in tempo». E’ molto importante anche il lavoro con i genitori: i ragazzi tornano dalle proprie famiglie nel 90% dei casi

di Sabina Pignataro

Francesca, in due mesi, ha tentato il suicidio più volte. Luca, Jenny e Davide sono stati ricoverati in ospedale, contemporaneamente, per atti di autolesionismo. Alla comunità di neuropsichiatria per minori Pani e Peschi, nel quartiere Gallaratese di Milano, negli ultimi mesi raccontano che gli adolescenti che arrivano ai servizi hanno sofferenze e disturbi sempre più gravi e pesanti, e nelle comunità di neuropsichiatria il lavoro è sempre più complesso.

C'è, in generale, una fatica crescente nelle comunità di accoglienza e nei servizi educativi in Italia, ormai conclamata: da mesi su Vita denunciamo la carenza di educatori e parallelamente il taglio dei fondi pubblici necessari per garantire il servizio. Ancora più preoccupante è la situazione nelle comunità che accolgono minori e ragazzi con disagio psichico, dove diversi sono i problemi che stanno rendendo complicato il lavoro e il servizio offerto.

Ragazzi in situazioni sempre più gravi

La comunità Pani e Peschi, gestita dalla cooperativa Filo di Arianna del Consorzio Farsi Prossimo, è una struttura riabilitativa terapeutica di neuropsichiatria per minori, che può ospitare ogni anno circa una decina di ragazzi, maschi e femmine, tra i 14 e i 17 anni.

Ultimamente in comunità riscontrano un aumento dei tentati suicidi. E non si tratta di atti teatrali di richiesta di attenzione, o gesti di autolesionismo, che pure ci sono e sono altra cosa. È una situazione complessa da gestire, anche dal punto di vista pratico.

Francesca, negli ultimi due mesi, ha tentato il suicidio diverse volte, cercando di strangolarsi o soffocarsi. «Succede sempre in momenti inaspettati, magari è stata una giornata con diverse attività fatte insieme, l'abbiamo accompagnata all'attività di volontariato, al centro di aggregazione giovanile, e poi nel tempo breve di un cambio turno e del passaggio di consegne, la si ritrova con un cordino al collo, reperito chissà dove», – racconta Anna Carretta, coordinatrice della comunità Pani e Peschi.

«E quando una ragazza come Francesca entra nella nostra comunità – prosegue Simona Novara, responsabile della cooperativa il Filo di Arianna– il rischio emulativo da parte degli altri ragazzi è molto forte». Negli spazi di Pani e Peschi coltelli, lamette e tagliaunghie sono sottochiave, ma anche detersivi e profumi. «Chiaramente non abbiamo lampadari né nulla a cui ci si possa appendere». Ma eliminare gli oggetti pericolosi può non bastare. «Gli educatori di turno non possono distrarsi un attimo. Ma mentre ne guardano uno o due, in particolare, gli altri continuano ad avere bisogno di attenzione. E io come direttrice non posso certo aumentare l’organico d'emblée ogni volta che si presenta un’emergenza».

Gli educatori di turno non possono distrarsi un attimo. Ma mentre ne guardano uno o due, in particolare, gli altri continuano ad avere bisogno di attenzione. E io come direttrice non posso certo aumentare l’organico d'emblée ogni volta che si presenta un’emergenza

Simona Novara, responsabile della cooperativa il Filo di Arianna

Gli educatori sono troppo pochi

Recentemente il Terzo Settore lombardo ha denunciato la carenza di educatori e altri professionisti del sociale e del sanitario, sempre più stremati da un lavoro faticoso e poco riconosciuto, anche economicamente. La situazione è ancora più evidente nelle comunità dove ogni giorno si devono gestire situazioni dolorose, angoscianti, con la paura continua che, quella volta, non si riesca ad evitare il peggio.

«Gli educatori, gli operatori della comunità vivono un significativo e costante carico emotivo. Noi abbiamo regolare supervisione psicologica, ci confrontiamo quotidianamente con i clinici di riferimento, ma gli operatori ora stanno chiedendo un ulteriore supporto psicologico», continua Carretta. « Negli spazi di Pani e Peschi adottiamo tutte le precauzioni possibili, tutte le attenzioni, oltre dotarci come doveroso di protocolli di prevenzione dei rischi e di gestione delle emergenze e fare formazione continua; cerchiamo di supportare i ragazzi nella loro angoscia, lavoriamo anche molto con le famiglie per ottenere collaborazione e proteggere da relazioni disfunzionali, ma le cose succedono nonostante le precauzioni e i progressi che comunque si raggiungono. E allora negli operatori subentra il senso di impotenza, che ha un impatto emotivo fortissimo».

Gli educatori, gli operatori della comunità vivono un significativo e costante carico emotivo. Noi abbiamo regolare supervisione psicologica, ci confrontiamo quotidianamente con i clinici di riferimento, ma gli operatori ora stanno chiedendo un ulteriore supporto psicologico

Anna Carretta, coordinatrice della comunità Pani e Peschi

Le soddisfazioni, comunque, non mancano

«Nonostante tutte queste fatiche – prosegue Simona Novara- le gratificazioni non mancano. Ma sapete quali sono? Per noi il nostro lavoro, le nostre fatiche, il nostro sforzo hanno senso quando riusciamo a far rifiorire, a rimettere in piedi, un ragazzo o una ragazza che sembrava solo apparentemente rotto, difettoso. Un giovane con il quale i tentativi di cura più leggeri non avevano funzionato, con i quali la società era in debito perché non era stata capace di intervenire in tempo». Per noi, aggiunge, «rimette in piedi non significa che il disturbo è sparito, che l’ansia, l’aggressività, la depressione, la tendenza ad agiti suicidali saranno scomparsi per sempre. Per noi un intervento di uno o due anni con questi adolescenti ha senso quando riusciamo a individuare con loro una strategia per contenere o limitare gli effetti dei disturbi, e poi quando siamo riusciti ad insegnare loro a riconoscere l’insorgere di un malessere e a chiedere aiuto prima che sia troppo grave».

Il nostro lavoro, le nostre fatiche, il nostro sforzo hanno senso quando riusciamo a far rifiorire, a rimettere in piedi, un ragazzo o una ragazza che sembrava solo apparentemente rotto, difettoso.

Simona Novara, responsabile della cooperativa il Filo di Arianna

9 ragazzi su 10 tornano in famiglia: serve lavorare anche con i genitori

Ecco, «sapersi ascoltare, saper chiedere aiuto» sono due risultati importanti per i ragazzi, ma – aggiunge Novara, «anche per le famiglie affaticate di questi figli». Si tratta, spiega, « di famiglie normali, non necessariamente in stato di deprivazione economica o culturale. La loro è più che altro una fragilità che attiene le competenze genitoriali: spesso sono famiglie messo allo stremo dalle difficoltà dei figli, o con storie di traumi mascherati, o malattie». Anche con loro è necessario che venga attivato un percorso di presa in carico. «E necessariamente anche con la scuola o il contesto sociale da cui provengono».
I ragazzi seguiti dalla comunità tornano alle proprie famiglie nel 90% dei casi.

Importante dare continuità anche dopo l’uscita dalla comunità

Soprattutto, sottolinea ancora la direttrice, «il nostro è un lavoro di cura che non lascia solo il ragazzo e la famiglia, ma continua nel tempo per assicurarci che il percorso avviato stia funzionando». L’elemento temporale è dirimente rispetto alla riuscita degli interventi. E anche questo richiede un intervento economico e personale.

Tornando al caso concreto di Francesca, ogni volta, la ragazzina è stata ricoverata in ospedale – «Ma in pediatria, perché minorenne: non in un reparto di neuropsichiatria infantile, per carenza di posti letto, e nemmeno in un reparto di psichiatria per adulti, che invece rischierebbe di essere inappropriato – racconta Carretta. – Di fatto sono stati 4 ricoveri inutili, perché in pediatria non possono lavorare su queste patologie. Recentemente, in un solo weekend, abbiamo avuto ricoverati tre ragazzi a seguito di atti di autolesionismo: due si sono procurati tagli, uno ha ingurgitato del sapone». Per Francesca durante i ricoveri la comunità ha dovuto garantire operatori a fianco h24, riorganizzando in emergenza i turni del personale della struttura e di altri centri della cooperativa. Le procedure ospedaliere richiedono la garanzia di presenza di un adulto per tutto il tempo di ricovero di un minore e non sempre possono essere coinvolti i genitori. «Non solo, non essendo in quei giorni il ragazzo presente in comunità, non viene corrisposta la retta da ATS. Quindi il personale dedicato al ricovero resta completamente a carico dell’ente gestore, spesso dovendo fare anche orari prolungati. È un cortocircuito».

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