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Il Papa agli indigeni canadesi: “Vi chiedo perdono”

Un viaggio difficile ma che voleva fare a tutti i costi, quello iniziato ieri dal Papa in Canada e che proseguirà sino al 29 luglio prossimo. Un "pellegrinaggio della penitenza" per chiedere perdono per il male fatto alle popolazioni native dai missionari cattolici. Francesco ha avuto il coraggio e l’umiltà di accogliere l'appello dei popoli originari, oltre mezzo milione dei quali oggi si identificano come cattolici

di Paolo Manzo

"Mi dispiace. Chiedo perdono, in particolare, per le modalità con cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno collaborato, anche con la loro indifferenza, ai progetti di distruzione culturale e di assimilazione forzata promossi dai governi di quel tempo, culminati nel sistema delle scuole residenziali”, ha esordito ieri Papa Francesco nel suo primo discorso pubblico vicino all'ex sito della Ermineskin Indian Residential School, a sud di Edmonton, un tempo una delle più grandi scuole residenziali canadesi.

Il Pontefice ha affermato che, sebbene la carità cristiana “non fosse assente” e che ci fossero “molti casi di devozione e cura dei bambini”, gli effetti complessivi delle politiche in queste scuole sono stati “catastrofici” per i popoli First Nations, Métis e Inuit. “Chiedo umilmente perdono per il male commesso da tanti cristiani contro i popoli indigeni”, ha aggiunto, precisando che tali politiche sono state un "errore disastroso" incompatibile con il vangelo di Gesù Cristo. Verso la fine del suo discorso, Francesco ha anche chiesto "una seria indagine su ciò che è accaduto in passato e di aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a sperimentare la guarigione dai traumi che hanno subito".

Certo, il primo aprile scorso Papa Francesco si era già scusato ma tutt’altra cosa è andare sul posto, anche perché la ferita è grande e ancora aperta. Per rendersene conto ieri bastava guardare la folla che applaudiva il Papa ma, al contempo, ascoltare qualcuno che ad un certo punto ha gridato: “Ripudiate la Dottrina della Scoperta! Rinunciate alle bolle papali!”. Per la cronaca le bolle papali erano editti del XV secolo che giustificavano la conquista delle terre dei nativi e che molti leader indigeni hanno chiesto al Papa di revocare formalmente. Per non dire del lungo striscione rosso, con i nomi degli oltre 4.000 bambini che non sono mai tornati a casa dalle scuole residenziali e che si intrecciava tra la folla per ricordare perché tutti si sono riuniti ieri.

A partire dal XIX secolo, infatti, almeno 150.000 bambini indigeni sono stati separati dalle loro famiglie, a volte a forza, per frequentare queste scuole finanziate dal governo e gestite nel 60% dei casi dalla Chiesa cattolica. L'ultima è stata chiusa solo negli anni ’90. Purtroppo qui i bambini indigeni venivano puniti duramente perché parlavano la loro lingua madre e praticavano le loro tradizioni, e molti di loro hanno subito abusi sessuali, psicologici e fisici. Una Commissione canadese ad hoc per la verità e la riconciliazione ha concluso in un rapporto del 2015 che questo sistema scolastico ha perpetrato un "genocidio culturale". Inoltre, la stessa Commissione ha identificato oltre 4mila bambini morti di malattia, per suicidio, in incidenti o mentre cercavano di fuggire. A volte, né il governo né la scuola registravano i nomi degli studenti deceduti né riferivano i decessi alle loro famiglie. Molti di loro non sono stati riportati a casa e sono stati sepolti in tombe senza nome. La Commissione aveva chiesto al Papa di chiedere scusa per il ruolo della Chiesa cattolica nel sistema delle scuole residenziali, pressioni cresciute lo scorso anno, quando diversi gruppi indigeni hanno scoperto centinaia di altre tombe non segnalate nei siti degli ex collegi o nelle loro vicinanze.

Francesco ha avuto il coraggio e l’umiltà di accogliere il loro appello. Del resto, come ricordato dal cardinale Michael Czerny, un gesuita canadese tra i principali consiglieri papali del Vaticano, “sin dall’inizio del suo pontificato Francesco aveva detto che nessuna cultura può rivendicare il controllo del cristianesimo e che la Chiesa non può pretendere che le persone in altri continenti imitino il modo in cui gli europei esprimono la loro fede. Se questa convinzione fosse stata accettata da tutti coloro che sono stati coinvolti nei secoli successivi alla "scoperta" dell'America, si sarebbero evitate molte sofferenze, si sarebbero fatti grandi progressi e l'America sarebbe stata complessivamente migliore".

Noella Amable, che ieri ha atteso con ansia l'arrivo di papa Francesco nella Chiesa del Sacro Cuore dei Primi Popoli di Edmonton, la seconda meta di giornata del Pontefice, è nata a Onion Lake e in gioventù ha frequentato scuole diurne cristiane. Racconta di essere stata picchiata dalle suore e sentiva che la sua cultura le era stata portata via. "Non potevamo parlare la nostra lingua e ci hanno tagliato i capelli”, spiega. "Penso che volessero che sembriamo bambine non indiane". Anche sua madre era in una scuola residenziale e lì ha passato un periodo terribile. "Non è riuscita a farcela dopo che se n'è andata ed è finita a vivere in strada ad Edmonton”. Amable assicura che non è venuta al Sacro Cuore per condannare la Chiesa, né Papa Francesco. "Ho sentito le sue scuse questa mattina ed è stato molto commovente per me. Mia madre ci ha insegnato a perdonare le suore. Dovevo andare avanti. Francesco si è detto dispiaciuto e dobbiamo tenerlo nel nostro cuore. Quante volte qualcuno può dire di essere dispiaciuto?”.

Dal canto suo Randy Ermineskin, capo della Nazione Cree Ermineskin in Alberta, ha detto di sperare che la visita e le parole del Papa portino a quella che lui chiama una guarigione. "Vogliamo che la verità su ciò che è accaduto in queste scuole sia resa pubblica", ha detto. "Tutti devono sapere cosa ci è successo e che non accadrà mai più”.


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