Education & Scuola

I tassi di dispersione? Siamo un paese che non crede nell’istruzione di massa

La dispersione scolastica mette le sue radici nel passaggio dalla primaria alla secondaria di primo grado: «Già alle medie noi abbiamo la discriminazione fra chi ha alle spalle un coté famigliare e culturale che supporta il percorso scolastico e chi non ce l’ha. Da qui in poi la forbice si accentua e diventa definitiva. La scuola non solo non riesce a ricucire il gap, ma lo accentua», spiega la professoressa Elisabetta Nigris dell'Università Bicocca. La scuola da sola non ce la fa? «Vero, ma nessuno pensi di farcela senza la scuola»

di Sara De Carli

Perché perdiamo tanti alunni per strada? La risposta della professoressa Elisabetta Nigris è molto dura: «Perché la nostra scuola in realtà non crede che tutti possano arrivare a un diploma di qualità. Molti – basta guardare l’accanimento degli ultimi vent'anni su eccellenza e merito – hanno in fondo l’idea che la scuola deve individuare l'eccellenza e formare molto bene solo l'eccellenza: per tutti gli altri c’è il lavoro». Nigris è professoressa ordinaria presso l'Università Bicocca di Milano, dove insegna “Progettazione didattica e valutazione” ed è Delegata della Rettrice per la Formazione degli Insegnanti. L'istruzione di massa da noi è quasi motivo di recriminazione e non quella grande opportunità per la società che negli altri paesi si è tradotta in un innalzamento dei livelli culturali della popolazione e del numero di diplomati e laureati. La professoressa è una delle voci che ci hanno guidato nell'analisi di un fenomeno – quello della dispersione scolastica – così radicato da non fare più notizia: ma con 100mila ragazzi che ogni anno abbandonano la scuola, più di 82mila studenti bocciati perché hanno fatto talmente tante assenze da non invalidare l'anno scolastico e un 9,7% di dispersione implicita è impossibile chiudere gli occhi. Il numero di settembre di VITA è in edicola e scaricabile qui.

Da dove cominciare, professoressa?

Esiste un livello di analisi macro che non va dimenticato e che anzi ci aiuta a contestualizzare dati che in sé non ci danno contezza dei problemi. Il primo è che siamo uno dei paesi dell’Unione europea che negli ultimi vent’anni – da metà degli anni 90 – ha investito meno nella scuola. Può sembrare un dato generico o uno slogan, ma è il quadro entro cui prendono forma tutte le questioni, tanto è vero che l'unico periodo in cui nella scuola italiana si è verificata la mobilità sociale degli studenti, ovvero la scuola ha funzionato come strumento di emancipazione dei cittadini, in coerenza con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, è stato tra gli anni 80 e la fine degli anni 90. Poi siamo tornati ad avere una corrispondenza diretta tra successo scolastico e provenienza socioculturale dei ragazzi. Forse prima la corrispondenza era socioeconomica in sé, ora no, è socioeconomica culturale: il successo scolastico è legato alla laurea dei genitori, anzi in particolare ad avere entrambi i genitori laureati. È agghiacciante. C’è molta retorica sulle scuole dell’eccellenza, ma si confondono i piani: spesso quelle indicate come tali sono eccellenze in entrata, non in uscita. Hanno studenti in entrata con strumenti di base omogenei, che sono condizione per il successo scolastico. Ma le assicuro che tra questi “licei dell'eccellenza” – conosco bene l’area lombarda – ce ne sono alcuni che espellono ragazzi che poi all'università dimostrano di avere forti competenze: competenze che però la scuola non è stata in grado di riconoscere e potenziare.

L'unico periodo in cui la scuola italiana ha funzionato come strumento di emancipazione dei cittadini, in coerenza con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, è stato tra gli anni 80 e la fine degli anni 90. Poi siamo tornati ad avere una corrispondenza diretta tra successo scolastico e provenienza socioculturale dei ragazzi. Forse prima la corrispondenza era socioeconomica in sé, ora è socioeconomica culturale: il successo scolastico è legato alla laurea dei genitori, anzi ad avere entrambi i genitori laureati. È agghiacciante.

Elisabetta Nigris

E parlando nello specifico di abbandoni e dispersione?

Nello specifico della dispersione, un dato importante ma quasi mai citato è il fatto che la ricerca indica come momento di origine degli abbandoni il passaggio dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado. La secondaria di primo grado – le vecchie scuole medie – sono il primo step che amplifica le disuguaglianze fra gli studenti. Alla primaria la scuola riesce a contenere le disuguaglianze e a potenziare chi arriva con strumenti di base non adeguati, ma già alle medie noi abbiamo la discriminazione fra chi ha alle spalle un coté famigliare e culturale che supporta il percorso scolastico e chi non ce l’ha. Da qui in poi la forbice si accentua e diventa definitiva, tanto che si parla di ereditarietà del successo o dell’insuccesso scolastico. La scuola insomma non solo non riesce a ricucire il gap, ma lo accentua.

Se c’è stato un periodo in cui la scuola ha funzionato come ascensore sociale, cos’è che poi l’ha portata ad essere addirittura un elemento che amplifica il gap che esiste tra i ragazzi, in base alla loro provenienza socioeconomica e culturale? È solo questione di disinvestimento in termini di risorse?

Un aspetto riguarda la figura professionale dell'insegnante, la perdita di prestigio, il calo della qualità del lavoro degli insegnanti (e non per colpa degli insegnanti). C’è stato un momento in cui l’identità dell’insegnante era forte, l’insegnante pensava che la sua professione fosse utile per la società e per i cittadini. Ma piano piano sono diminuiti i piani nazionali di formazione, che trasferivano un certo disegno di scuola: il tempo pieno per esempio è stato svuotato e svilito dal fatto che non ci sono più state le co-presenze e non è stato esteso nei territori in cui non c’era. Il tempo pieno è diventato un tempo pieno di scuola e ha smesso di essere un progetto educativo per i bambini su tutto l'arco della giornata. Misure governative come l’insegnante prevalente nella primaria, i programmi della Moratti che sono tornati alla scuola del contenuto e ad apprendimenti mnemonico/frontali, tutta la riforma degli istituti tecnici che erano il fiore all’occhiello della nostra scuola… hanno smantellato una scuola che per vent’anni aveva perseguito un'idea diversa di istruzione. Il ministro Bussetti poi nel 2017 ha autorizzato l’immissione di 45mila insegnanti senza titolo: ma una scuola fatta da persone senza titolo e senza formazione è una scuola legata alla casualità e all’improvvisazione. Puoi anche essere molto fortunato, ma la verità è che spesso la scuola, nel quotidiano, si abbassa su attività di tipo esecutivo, legate a contenuti molto riduttivi, senza aver mente né i processi con cui si costruisce l’apprendimento né come si usano le diverse metodologie per produrre apprendimento né come si collega l’insegnamento all'apprendimento. Questo per gli studenti che hanno strumenti di base adeguati, figuriamoci per chi non li ha.

Alla primaria la scuola riesce a contenere le disuguaglianze e a potenziare chi arriva con strumenti di base non adeguati, ma già alle medie noi abbiamo la discriminazione fra chi ha alle spalle un coté famigliare e culturale che supporta il percorso scolastico e chi non ce l’ha. Da qui in poi la forbice si accentua e diventa definitiva, tanto che si parla di ereditarietà del successo o dell’insuccesso scolastico. La scuola insomma non solo non riesce a ricucire il gap, ma lo accentua.

Perché perdiamo tanti alunni per strada?

Perché la nostra scuola in realtà non crede che tutti possano arrivare a un diploma di qualità. Molti – basta guardare l’accanimento degli ultimi vent'anni su eccellenza e merito – hanno in fondo l’idea che la scuola deve individuare l'eccellenza e formare molto bene solo l'eccellenza: per tutti gli altri c’è il lavoro. E infatti sullo sfondo in questi anni è cresciuta la narrazione per cui nessuno vuole più fare lavori manuali… Quando gli opinionisti parlano della “scuola di una volta” si riferiscono a tempi in cui pochissimi andavano al liceo e per i molti c’era la scuola media di avviamento al lavoro: era una situazione che non può essere paragonata con quella attuale dell’istruzione di massa. Ma l’istruzione di massa non può essere la causa su cui inveire perché è una grande opportunità per la società e negli altri paesi si è tradotta in un innalzamento dei livelli culturali della popolazione e del numero di diplomati e laureati. Da noi no. Esistono invece – le assicuro – contesti di alta qualità didattica che non hanno nulla a che vedere con l’eccellenza degli studenti in entrata ma che riescono a rimuovere gli ostacoli e a non far perdere gli studenti.

Quali sono gli indicatori per riconoscere le scuole più attive, più interessate, più coinvolte nel non perdere i ragazzi?

Direi innanzitutto un dirigente con un ruolo pedagogico forte, capace di motivare gli insegnanti, di non affidarsi solo al piccolo gruppo attorno a sé, ma capace di creare comunità di pratiche nella scuola, qualcosa di cui gli insegnanti possono essere orgogliosi e a cui partecipano perché la sentono come una cosa propria. Sono scuole che spesso collaborano con università, che hanno in mente un progetto educativo a cui tutti concorrono, con un peer tutoring fra insegnanti molto forte, dove gli insegnanti neoassunti vengono accompagnati per entrare nel nuovo contesto. Scuole in cui la didattica non è solo frontale, appiattita sui contenuti: dove si è capito che per apprendere i contenuti e i concetti è necessario differenziare le modalità didattiche. I ragazzi vanno appassionati e per appassionare ci vogliono sì modalità comunicative ma anche un sincero interesse per i ragazzi: un insegnante deve sapere che cosa ha senso per loro. Sono insegnanti che non colpevolizzano i ragazzi perché non imparano.

Si dice ormai da più parti che la scuola non può farcela da sola nella sfida di educare e formare i ragazzi: c’è bisogno di tutta la comunità. Che ne pensa?

La scuola non può farcela da sola perché il compito di formare le nuove generazioni deve riguardare tutta la società, questa è una prima ragione. La seconda ragione è che in questo momento i contesti di apprendimento informale sono così preponderanti rispetto a quelli formali che io non posso più non tenerne conto: la tv fino a poco fa, la rete, i musei, i science center, le infinite situazioni in cui o ragazzi possono fare esperienza e a volte sono più efficaci della scuola. Sono esperienze e soggetti che esistono – dai musei agli scout, dai contesti sportivi a quelli dell’intrattenimento – con cui la scuola deve trovare il modo di interagire. Anche perché il collegamento con la scuola potrebbe democratizzare l’accesso a queste esperienze e contribuire ad alzare la qualità pedagogica dell’offerta. Ma non è solo questo: anche per chi ha molte opportunità formative, senza la sistematizzazione di queste esperienze attraverso la scuola, rischiano di rimanere esperienza estemporanee. La scuola infatti fornisce un apprendimento formale proprio perché dà forma alle esperienze di apprendimento. In altre parole, la scuola non può e non deve farcela da sola, ma nemmeno il fuori scuola può farcela da solo. Il Terzo settore, proprio dove ci sono più disuguaglianze e dove sono necessarie risorse aggiuntive, ha competenze che possono benissimo interagire con quelle degli insegnanti, e che insieme al lavoro svolto dai docenti, si possono trasformare in un circolo virtuoso. Quello che va molto ben stabilito sono i pesi e ruoli che devono avere i diversi soggetti. La scuola è il soggetto che ha in capo la progettazione didattica, quindi ben vengano insegnanti in grado di co-progettare con il Terzo settore, ma il Terzo settore non pensi alla scuola come un campo di conquista. La scuola non è terra di conquista, è il luogo in cui diversi soggetti della società concorrono per la formazione del cittadino.

In quest'epoca i contesti di apprendimento informale sono così preponderanti rispetto a quelli formali che non si può più non tenerne conto. A volte sono più efficaci della scuola. Il collegamento con la scuola potrebbe democratizzare l’accesso a queste esperienze. Ma non è solo questo. La scuola fornisce un "apprendimento formale" proprio perché dà forma alle esperienze. In altre parole, la scuola non può e non deve farcela da sola, ma nemmeno il fuori scuola può farcela da solo.

Che ne pensa di questi primi 500 milioni messi a disposizione delle scuole con il Pnrr per contrastare la dispersione scolastica?

Purtroppo io sono preoccupata: sono un’ingente quantità di risorse che sono state allocate senza un disegno e un progetto educativo che vada nella direzione desiderata, della riduzione dispersione. Sono stati dati senza un progetto di sviluppo della scuola e della società, ma in modo frammentario. Dipenderà dalla capacità della singola scuola o del singolo soggetto del terzo settore la capacità di andare o meno nella direzione desiderata, di costruire una partnership fruttuose… non c’è una vera regia e i tempi sono brevissimi. Credo che sarebbe stato utile avere delle linee guida o la possibilità di coordinare sinergicamente le forze in gioco.

Foto di Pixabay


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA