Educazione

Se fare il proprio meglio è diventata un’eresia

Che cosa c'entrano Jannik Sinner e i ragazzi che hanno scelto intenzionalmente di fare scena muta all'orale della maturità? In modi diversi, entrambi hanno a che fare con il sacrificio, la pressione e con l'idea di "fare del proprio meglio": un concetto che oggi mette a nudo le nostre contraddizioni educative. Sbaglia il ministro Valditara a dire "bocciamoli tutti" e sbaglia pure chi ne fa eroi della disobbedienza. In mezzo cosa c'è? L'ascolto

di Sara De Carli

Giuseppe Valditara

Perché applaudiamo estasiati davanti ai sacrifici che il giovane Jannik ha affrontato per arrivare sul tetto del mondo e al suo essere “under pressure” come privilegio, in quanto gli permette di tirar fuori il meglio di sé e poi invece sacrifici, impegno e pressione nel discorso pubblico sono diventati quasi dei tabù, perché significa “pretendere troppo” ed essere ancora legati – penso alla scuola soprattutto – a modelli educativi “prestazionali”, “meritocratici”, “stressanti”? Sono le domande che si è posta Francesca Gennai (leggi qui), sociologa, presidente della cooperativa sociale La coccinella e vicepresidente del gruppo Cgm. Gliene sono grata, perché le domande che lei pone hanno finalmente dato parola a una contraddittorietà di fondo, a un disagio che avvertivo nei giorni scorsi leggendo tutto il dibattito sui ragazzi che per protesta non hanno sostenuto l’orale della maturità. E riesce a farlo, credo, proprio perché estremizza il confronto, portando in campo due piani così spoporzionati, la scuola e Wimbledon.

Il sacrificio che ci piace è quello degli altri

Perché siamo pronti ad applaudire chi si è svegliato alle cinque del mattino per anni, ha saltato vacanze, amici, leggerezze e ci emozioniamo per un ragazzino che ad appena 13 anni si trasferisce da solo in Liguria, lontano dalla sua Val Pusteria, per inseguire un sogno? Perché d’altro canto non facciamo che ripetere che la scuola “pretende troppo”? Vuol dire che accettiamo il sacrificio solo quando diventa spettacolo o denaro? O che il sacrificio è accettabile solo quando riguarda altri, ma non i nostri figli? È davvero educativo pensare che si possa ottenere qualcosa senza mai essere messi sotto pressione? Ha davvero senso il dibattito discutere se sia meglio una scuola “richiestiva” o una “accogliente”, come se le due cose fossero alternative incompatibili? O accapigliarci se quelli che non hanno sostenuto l’orale siano eroi in protesta contro il sistema o furbetti lavativi che hanno solo cercato di sfilarsi dalla responsabilità di sostenere una prova e di essere valutati?

Né bocciati né esaltati, vanno ascoltati

Sbaglia chi semplicemente ai ragazzi dice “vi dovete abituare”, perché si è scordato che le cose che non vanno si possono pure cambiare. Sbaglia il ministro Giuseppe Valditara a liquidare senza ascoltare le istanze dei ragazzi: «Vanno bocciati», ha tuonato, mettendo in campo sempre e solo il metro del giudizio anziché quello della valutazione, con una frase che sembra voler punire questi studenti solo in quanto “indisciplinati”, visto che dal punto di vista formale dei crediti maturati, in quell’ingessatissimo sistema di numeri messo in piedi per l’esame di Stato, il punteggio necessario per superare l’esame lo hanno comunque, anche facendo scena muta all’orale. Sbaglia però pure chi ne fa degli eroi del dissenso e ripete il ritornello di una scuola troppo centrata sulla performace, rischiando di coltivare inutilmente l’elogio del fallimento. Ok, l’abbiamo capito, la scuola che ragiona solo in ottica di giudizi, voti, classifiche e performance non va bene, ma cosa possiamo fare per cambiarla? Prima, magari, non il giorno della maturità. Io credo che prima di tutto vanno ascoltati, pure nei modi e nelle forme che hanno scelto per la loro protesta.

Se fare il meglio è diventata un’eresia

Lo scrivevo già un anno fa in questa newsletter e quelle domande tornano fuori con forza oggi: perché siamo tutti terrorizzati dal gettare addosso ai ragazzi il fardello dell’ansia da prestazione e allo stesso tempo non facciamo altro che lamentarci – tra il preoccupato e lo scocciato – della fragilità dei nostri figli dinanzi all’assunzione di un compito e di una responsabilità? Perché chiedere di “fare del proprio meglio” sembra diventata un’eresia indicibile, dal punto di vista educativo? Possibile che ci siamo persi per strada la consapevolezza che c’è una differenza tra pretendere sempre e solo il meglio dai nostri figli e l’invitare invece ciascuno a fare del proprio meglio? Non è quello, come dice Sinner, segno che qualcuno crede in te? Solo a me sembra invece che di retorica sull’elogio del fallimento ne abbiamo fatta a bizzeffe? E di non vedere bene che cosa succede dopo che abbiamo elogiato il fallimento?

Francesca, con cui condividevo questi dubbi, ha dato una risposta tranchant: «Elogio del fallimento per i figli degli altri, perché alla fine mi pare che ognuno di noi abbia paura che i propri figli rimangano “indietro”».

Questo articolo è parte della newsletter “Dire, fare, baciare” di martedì 15 luglio. La newsletter è dedicata ai temi della famiglia, della scuola e dell’educazione, esce ogni martedì ed è riservata agli abbonati di VITA. Se hai già un abbonamento e vuoi iscriverti alla newsletter, clicca qui. Se vuoi abbonarti a VITA (anche con la Carta del docente), puoi farlo da qui.

Il ministro Giuseppe Valditara – Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse

Vuoi accedere all'archivio di VITA?

Con un abbonamento annuale potrai sfogliare più di 50 numeri del nostro magazine, da gennaio 2020 ad oggi: ogni numero una storia sempre attuale. Oltre a tutti i contenuti extra come le newsletter tematiche, i podcast, le infografiche e gli approfondimenti.