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Sustainability portrait

Politiche green senza “trucco”

Nella nuova puntata della rubrica dedicata ai manager con competenze ESG entriamo nelle strategie di uno dei più importanti gruppi nel settore della cosmetica e del beauty. Ce le racconta, con un entusiasmo che parte da molto lontano, Simone Targetti Ferri di L'Oréal Italia

di Nicola Varcasia

Simone Targetti Ferri ha esplorato in prima persona, o attraverso le realtà con cui ha collaborato, i principali nodi della transizione ecologica. Oggi è chief sustainability officer di L’Oréal Italia e contribuisce ad applicare questa esperienza al business della cosmetica con un’attenzione crescente all’aspetto sociale, oltre che ambientale.

Quando è nato il suo feeling con la sostenibilità?

L’interesse c’è da sempre, ma la scintilla è scoccata nel 2009, all’Università di Roma 3, dove studiavo relazioni internazionali. Nell’ambito del progetto Leonardo, che prevedeva sei mesi di lavoro all’estero, ho frequentato uno stage presso un’organizzazione non governativa irlandese.

Di che cosa si occupava?

Di diritti umani in America latina, con un approccio per me molto originale all’epoca: si iniziava ad affermare con grande chiarezza il legame tra diritti umani e diritti ambientali, che implicava un modo nuovo di guardare alle popolazioni locali dell’Amazzonia.

Quale?

Ho cominciato a comprendere che c’era un problema molto più grande, legato non solo alla deforestazione, ma all’utilizzo errato di tutte le risorse naturali, dal suolo a quelle idriche. Così ho deciso di continuare ad occuparmi di questo anche dopo il mio rientro in Italia.

Come ci è riuscito?

Ho avuto la fortuna di conoscere una persona illuminante, che mi ha informato di un nascente Master di specializzazione sulla sostenibilità al Ministero dell’ambiente. Per lei era già evidente che questo tema ancora di nicchia tra qualche anno sarebbe diventato centrale.

Lì ho cominciato a studiare il protocollo di Kyoto e gli altri accordi internazionali e ho proprio capito che questa era la mia strada.

Come si è svolto il suo percorso?

Ho iniziato a lavorare per il Ministero dell’ambiente e poi ho proseguito alle Nazioni unite. È stata un’avventura professionale di più di dieci anni nella cooperazione e sviluppo, prima come esperto distaccato nella gestione delle risorse naturali in Africa e poi come esperto di sostenibilità ambientale, ma con una apertura sul sociale, aspetto sempre più rilevante per i Paesi in via di sviluppo.

Quali altri passaggi prima di L’Oréal?

Da progetti più concreti contro la deforestazione e per una gestione ottimale delle risorse idriche, tra i quali una missione in Marocco, nella catena montuosa dell’Atlante, che aveva l’obiettivo di conciliare le contrastanti esigenze delle varie popolazioni locali rispetto all’utilizzo delle risorse naturali, sono passato a un lavoro più strategico, sempre a supporto dei Paesi in via di sviluppo coinvolti nei problemi legati al cambio climatico. Desideravo però tornare ad occuparmi di qualcosa di più pratico, anche rispetto alle tematiche più impattanti in Europa da questo punto di vista.

Così si è affacciato alle grandi aziende?

Sì, perché le imprese di grandi dimensioni avevano un crescente bisogno di comprendere come ridurre al minimo il loro impatto socio-ambientale, aumentando il loro valore in questi termini. Dopo un primo passaggio in Disney Francia – dove i temi principali erano da un lato l’impatto generato da hotel, parchi, resort e ristoranti e dall’altro l’ingaggio del pubblico più giovane – e il lancio di una start-up sulle alternative alle plastiche, una tematica al centro del mio interesse, due anni fa sono arrivato in L’Oréal Italia.

Che cosa significa per il vostro Gruppo lavorare per la sostenibilità?

I temi di sostenibilità sono presenti nel dna del nostro Gruppo, la cui attività riguarda prodotti che le persone utilizzano ogni giorno. Per noi la sostenibilità è un dovere che caratterizza il nostro modo di fare business e la nostra strategia, basata sulla consapevolezza che la trasformazione sostenibile non si compie da soli ma si fa in “comunione di beni”, con l’ecosistema.

Com’è strutturata?

Partiamo dalle persone, dal trasformare noi stessi. Dedichiamo molto spazio alla formazione e al training di ogni genere, sia teorico che pratico, per approfondire il nostro sistema valoriale e le ragioni che ci spingono a proporre un business sostenibile.

Per quel che riguarda i prodotti?

Uno degli aspetti principali è cercare di utilizzare ingredienti disponibili in natura non a rischio estinzione secondo le indicazioni della Iucn – Unione internazionale per la conservazione della natura. Non mettere a rischio gli ecosistemi è un valore fondamentale per noi.

Come rendete più sostenibili il packaging?

Anzitutto, cercando di snellirne la consistenza, utilizzando sempre meno plastica o altri materiali che non permettono di gestire il ciclo di fine vita in modo corretto.  

Rispetto ai siti di produzione?

Non possiamo definire sostenibili i nostri prodotti se non lo sono anche i siti di produzione e stoccaggio. Uno dei nostri siti di valore, a Settimo Torinese, è un best case a livello internazionale: dal 2015 è alimentato al 100% da energie rinnovabili, negli ultimi anni vi abbiamo costruito 14mila pannelli solari ed è anche un sito water loop che recupera il 100% delle sue acque industriali.

La parte ambientale è giustamente importante per un’azienda produttrice, qual è il vostro impegno nel sociale?

L’Oréal segue un progetto di impegno e ingaggio molto forte lungo la sua catena del valore. Il nostro programma prevede che ogni fornitore raggiunga le certificazioni Cdp – Carbon Disclosure Project ed Ecovadis, in modo che le aziende che lavorano con noi diventino esse stesse più sostenibili. Con i clienti, il progetto Green joint business plan prevede dei piani di crescita e di trasformazione del business costruiti assieme, dedicati a varie tematiche, dai trasporti ai materiali più sostenibili.

Un gruppo internazionale ha anche responsabilità internazionali, come partecipate alle sfide planetarie di salvaguardia del pianeta?

L’Oréal oggi ha quattro fondi di investimento, due più filantropici e due di investimento puri, con cui supporta le sfide globali quali il cambio climatico, l’empowerment femminile, la rigenerazione della natura e il concetto di economia circolare che oggi è alla base del nostro business model.

Come è evoluto il rapporto con la comunità e il territorio?

La parte sociale ha un valore fondamentale. Nell’ambito del programma Solidarity Sourcing, di anno in anno ci poniamo degli obiettivi quantitativi incrementali per assicurarci che, anche all’interno della nostra catena di fornitura, ogni fornitore lavori con persone con fragilità di diverso tipo. A Settimo, ad esempio, qualche anno fa è stata lanciata Vale un sogno 2, una partnership tra lo stabilimento e l’associazione Valemour per l’inclusione sociale e lavorativa, con l’obiettivo di formare al lavoro e al raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza personale ragazzi con disabilità intellettiva. Queste persone vengono formate ma poi non sono obbligate a rimanere con noi, anzi, favoriamo il loro inserimento nel mondo del lavoro anche in altre realtà.

Collaborate anche con realtà non profit?

Grazie al non profit siamo riusciti a dare ulteriore voce ai nostri valori. Per noi le collaborazioni con le realtà del Terzo settore hanno un valore fondamentale: portiamo avanti cooperazioni storiche ad esempio con Valemour, Banco Building ed Emergency e che ci aiutano in determinati contesti sociali. Ogni singolo marchio è poi impegnato in “brand causes”, con impegni sociali a grande impatto differenziati in base alle singole linee di business.

Come funzionano le cause di brand?

Non si tratta di pure e semplici donazioni, ma di veri e propri programmi, con una persona dedicata all’interno di ciascun brand: viene individuata una Ong con cui costruire un percorso che viene seguito dalla A alla Z. Si tratta di programmi internazionali che in Italia vengono portati avanti con Ong italiane. Per esempio Yves Saint Laurent con la fondazione Dire ha lanciato il programma Abuse is not love, che si occupa di sensibilizzazione sulla violenza da partner intimo, mentre L’Oréal Paris, con Alice Onlus, è attiva con il programma Standup.

In cosa consiste?

L’iniziativa si propone di cambiare nel profondo l’indifferenza nei confronti delle molestie e fornisce agli uomini delle semplici indicazioni per aiutare nell’immediatezza le donne che stanno subendo una molestia. Vorrei ricordare anche Head Up, il programma sviluppato da L’Oréal Professionnel con l’Associazione Itaca per sostenere con un supporto costante e gratuito il disagio psicologico dei parrucchieri che ogni giorno al lavoro, incontrano e ascoltano le difficoltà dei clienti.

Come vi posizionate rispetto al “bombardamento” sui temi della sostenibilità a livello di comunicazione?

C’è tanta informazione e anche cattiva informazione. Noi, come policy di Gruppo, abbiamo scelto di muoverci anzitutto sul fronte del reporting ufficiale. Da diversi anni, ben prima della regolamentazione, abbiamo una reportistica non finanziaria estremamente dettagliata e pubblica. Gli stakeholder direttamente coinvolti possono accedere a tutto quello che facciamo. Questo comporta che su questi temi “produciamo” meno comunicazione rispetto ad altre aziende. Ma la scelta di comunicare i vari progetti solo quando sono conclusi, ossia quando generato un impatto tangibile e controllabile, alla lunga paga in termini di chiarezza, reputazione e semplicità.

Qual è la sfida aperta nel vostro settore in merito alla sostenibilità?

Per il settore della cosmetica e del beauty la sfida del momento riguarda il refill: si deve passare ad un modello in cui si valorizza sempre di più il contenuto e meno il contenitore. È il contenuto a conferire il maggior vantaggio competitivo. I contenitori, la cui produzione oggi ha un grande impatto in termini di carbonio e di plastica, può decisamente essere rivista e ripensata. Il mondo della cosmetica deve lavorare sia in termini di ricerca e sviluppo per il packaging, sia in termini di comunicazione al mercato e al consumatore. Per far sì che il mindset passi dal “che bella questa confezione” al fatto che le aziende sono in grado di proporre lo stesso prodotto, con lo stesso valore e la stessa formula, ma con un packaging ridotto e fare qualcosa di buono per il pianeta.


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