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Abbiamo bisogno di tante Wangari Maathai

di Nawart Press

In un libro di appena 3000 parole, pubblicato nel 1954, Jean Giono, scrittore e libero pensatore provenzale, raccontava la storia di Elzéard Bouffier, un uomo vecchio e solo che passò trent’anni della sua vita a piantare alberi per far rivivere quelle colline della Valchiusa diventate desolate e aride. Giorno dopo giorno, camminava per chilometri e piantava alberi trasformando la campagna desertica in colline boscose in cui le piogge alimentavano i ruscelli e finalmente la vallata si ripopolava. Era “l’uomo che piantava gli alberi”. Non era che un piccolo racconto, ma di fronte alle proiezioni che si prospettano a causa del riscaldamento globale, acquisisce un senso sempre più profondo.

Mentre i 148 capi di stato e di governo si radunano a Parigi per elaborare un accordo mondiale per affrontare il cambiamento climatico, vorremmo ricordare una donna che ha fatto leggenda, una militante ecologista keniota, che ha continuato a lottare fino alla sua morte nel 2011, nella convinzione che ecologia, diritti delle donne e democrazia siano strettamente connessi e necessariamente debbano essere trattati sullo stesso livello. Si tratta di Wangari Maathai, nata a Nyeri, nel Kenya rurale nel 1940.

La COP21 dovrà ad ogni costo diventare un accordo “storico” e imprescindibile per il futuro dell’umanità. Ricordare Wangari Maathai, significa ricordare che l’azione di Elzéard Bouffier, l’“uomo che piantava gli alberi” non può essere né unica né isolata.

 

Dopo una laurea e un master in biologia ottenuto negli Stati Uniti nel 1966, iniziò un dottorato di ricerca e fu la prima donna africana ad ottenerlo nel 1971 in Germania e all’Università di Nairobi. Dopo il dottorato di ricerca divenne la prima donna alla direzione del dipartimento di anatomia veterinaria all’Università di Nairobi. Ma bisogna aggiungere altre e prestigiose nomine sotto la bandiera di la prima donna africana. Infatti fu attiva nel Consiglio nazionale delle donne in Kenya dal 1976 al 1987, e in questo lasso di tempo introdusse l’idea di creare un movimento basato sulle collettività rurali per piantare alberi. Definì l’idea che presto si trasformò nel Green Belt Movement, il cui obiettivo era la riduzione della povertà, la conservazione dell’ecosistema attraverso gli alberi. Con il Green Belt Movement, Wangari Maathai diventò la prima donna africana a ricevere il premio Nobel per la pace nel 2004. Disse in quell’occasione “in pochi decenni, la relazione tra ambiente, risorse ambientali e conflitti sarà tanto ovvia come è ovvia ora la connessione tra diritti umani, democrazia e pace”. Nel 2006, le Nazioni Unite lanciavano la Billion tree campaign (La Campagna un miliardo di alberi), ispirata all’idea di Wangari Maathai, che attraverso organizzazioni non governative, della società civile e individuali, ha l’obiettivo di piantare un miliardo di alberi ogni anno.

Il Green Belt Movement, nasceva per rispondere ai bisogni dei contadini kenioti, che per la stragrande maggioranza sono donne. Le donne lamentavano che le sorgenti d’acqua si stavano lentamente prosciugando, il cibo iniziava a scarseggiare sempre di più e che dovevano camminare sempre più lontano per raccogliere la legna per il fuoco. Il Green Belt Movement nasceva così con pochi mezzi in un progetto collettivo che incoraggiasse le donne a lavorare insieme per piantare alberi nella zona. Gli alberi avrebbero reso il suolo meno franoso, avrebbero alimentato i depositi di acqua piovana e prodotto alimenti e legna per il fuoco. Secondo Wangari Maathai, le donne africane sono la parte della popolazione che più risente dei risvolti negativi legati al riscaldamento globale. Le donne, perché nelle campagne sono loro che si occupano dell’agricoltura, e dell’approvvigionamento di acqua e legna. Da piccolo movimento locale, il Green Belt Movement è diventato un movimento globale. Nel solo 2014, attraverso il Green Belt Movement, 438129 alberi sono stati piantati in Kenya per un totale di più di 51 milioni di alberi da quando il movimento è nato.

Nel corso della sua lunga carriera, Wangari Maathai è stata una donna divenuta simbolo della lotta eco-femminista ma è stata anche una donna duramente criticata dal sistema patriarcale. Fu una delle prime donne in Kenya a divorziare, ad avere un ruolo di primo piano nella vita pubblica, mantenendo un legame fortissimo con le sue origini rurali. Fu amata, fu stimata, fu criticata e fu anche incarcerata sotto il governo di Arap Moi, quando manifestò a Nairobi contro la costruzione di un grattacielo nel bel mezzo del più grande parco della città.

Il Green Belt Movement, è stato un movimento d’ispirazione per moltissime azioni che negli ultimi trent’anni si sono moltiplicate in tutto il globo. Un esempio è quello delle donne dell’associazione Aftawik, della comunità di Ghriss Essoufli, nelle oasi vicino a Errachidia, nel deserto marocchino, che sono riuscite a preservare l’ecosistema delle oasi minacciato dall’avanzare della desertificazione. Le popolazioni che vivono nelle oasi hanno osservato la graduale degradazione del suolo e dell’acqua, entrambe conseguenze del cambiamento climatico, che stavano mettendo a grave rischio i loro mezzi di sostentamento che per il 90% si basano sull’agricoltura. Attraverso la produzione e la commercializzazione delle erbe medicinali sono riuscite a preservare l’agricoltura delle oasi, e a mitigare gli effetti della desertificazione.

Quando, nell’intervista a Wangari Maathai in occasione del Forum Sociale del 2007 di Nairobi, Joshua Massarenti per Vita le domandava se rimaneva ottimista e lei rispose in quel modo esemplare per cui resterà nella memoria di tutti come un’ispirazione: “sia a livello individuale che tra le associazioni, giunge sempre il momento in cui uno si interroga sull’opportunità o meno di portare avanti battaglie che molti danno perse in partenza. Io le risponderò con una storia che ho sentito in Giappone. È la vicenda di un uccellino confrontato alla furia delle fiamme che stanno devastando la sua foresta. Mentre tutti gli altri animali fuggono dalla foresta, l’uccellino decide di tornarci portandosi appresso un po’ d’acqua per buttarla nel fuoco. E così avanti e indietro sotto lo sguardo sbigottito degli animali. Ma sei pazzo. urlano i suoi amici. “Rischi di morire, e poi la tua acqua non basterà a spegnere il fuoco”. Ma l’uccellino risponde: “Non so se riuscirò a spegnerlo, ma sono convinto che quello che sto facendo va semplicemente fatto”.

 


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