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Ma che c’azzecca Draghi con la Transizione ecologica? Forse molto

di Alessandro Mazzullo

Che c’azzecca Draghi con la Transizione ecologica?

La risposta è: molto!

Almeno in linea teorica, intendiamoci. In concreto, saranno i fatti a doverlo dimostrare. E non basterà l’istituzione di un Ministero!

Dietro una delle poche cose che sembrano trapelare dall’inconsueto silenzio del Premier incaricato, ci sono ragioni che vanno ben al di là di quelle meramente politiche.

Non si tratta soltanto di sposare il progetto di una forza politica numericamente determinante come i 5S.

In gioco vi è l’aggancio con una prospettiva di sviluppo che è anche intrinsecamente europea ed atlantista: le altre due caratteristiche note del prossimo Governo.

Per capire ciò, occorre partire da alcuni dati che evidenziavo già un anno fa.

Come sottolineato dalla Commissione europea, nel Piano di Azione per finanziare la crescita sostenibile (presentato l'8 marzo 2018): “Fra il 2000 e il 2016, a livello mondiale, le catastrofi naturali di origine meteorologica hanno registrato un incremento del 46% e fra il 2007 e il 2016 le perdite economiche dovute a condizioni meteorologiche estreme nel mondo intero sono aumentate dell’86% (117 miliardi di EUR nel 2016). Si tratta di una tendenza preoccupante, poiché quasi il 50% dell’esposizione al rischio delle banche della zona euro è direttamente o indirettamente connesso ai rischi derivanti dai cambiamenti climatici. Si rilevano in misura crescente ulteriori questioni ambientali in grado di minacciare gli attuali modelli di business.

I rischi climatici non sono più soltanto rischi sociali, ma anche rischi economici. I loro effetti incidono direttamente sulla stabilità del sistema economico e finanziario. Basti pensare alla correlazione sempre più evidente tra l'attuale crisi pandemica, il rischio climatico che ne è la concausa e la crisi economica e sociale che ne conseguirà.

La Finanza è sempre più interessata a giocare un ruolo determinante per uno sviluppo sostenibile.

La performance ESG (environmental, social and governance), d'altronde, rappresenta un sempre più evidente fattore di successo per la stessa performance economica dei titoli negoziati. Ovviamente in un'ottica di lungo periodo e quindi non meramente speculativa. Ad esservi interessati, pertanto, sono innanzitutto i c.d. investitori istituzionali, in quanto titolari di capitali slow profit.

La quotazione di tali titoli è destinata a crescere insieme all'aumentata sensibilità della nuova generazione di investitori. Il che spiega il crescente interesse anche da parte del mercato retail.
Coniugare profitto e sostenibilità, insomma, appare non soltanto possibile, ma anche conveniente.

Si stima che, all’inizio del 2018, i capitali investiti secondo le strategie ESG (environment, social, governance) siano stati pari a circa $30,7 mila miliardi. Con una crescita del 34% in due anni (contro il 25,2% nel biennio precedente).

Sono queste considerazioni e questi dati che hanno portato l’Europa alla firma degli Accordi di Parigi, nel 2016, degli Obiettivi Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile e all’emanazione dell’Action Plan del 2018 per la finanza sostenibile[1]. E in tale direzione si stanno rapidamente muovendo anche gli Usa di Biden con l’annunciato rientro negli Accordi di Parigi e la volontà di incrementare gli investimenti pubblici e privati nella prospettiva della finanza sostenibile.

Già! Finanza sostenibile[2]! Sembra un ossimoro. Eppure, per poter raggiungere l’obiettivo della transizione energetica e della neutralità climatica entro le prossime due decadi, serviranno tanti soldi.

Non basteranno quelli pubblici! Nemmeno quelli europei del Next generation EU.

Occorrerà soprattutto mobilizzare in tale direzione il risparmio privato: il mercato dei capitali di cui Draghi è stato per anni protagonista, in qualità di controllore pubblico!

Come scrivevo qualche tempo fa, sempre su Vita, visto che le risorse pubbliche impiegabili saranno enormi, ma pur sempre limitate, lo Stato dovrà presto scegliere su chi investirle.

Non si tratterà, pertanto, di discutere delle condizionalità degli aiuti “agli” Stati, ma delle condizionalità degli aiuti “degli” Stati alle imprese. Su tale versante, sarà determinante ad esempio la tematica della tassazione brown/green e, possibilmente, la sua parametrazione ai bechmark climatici adottati a livello europeo[3].

Nell’eterna dialettica tra politica (lo Stato), economia (il mercato) ed etica (il tempio)[4], la prima si reimpone sulla seconda, e la terza può tornare ad orientare entrambe.

L’auspicio è che dalla crisi si sappia estrarre un’opportunità storica: quella di orientare questi investimenti verso un modello di sviluppo più sostenibile, sul piano sociale ed ambientale.

Se questo nuovo Ministero riuscirà in tale intento, sarà un successo. Altrimenti sarà stato l’ennesimo, costoso, inutile spot politico.


[1] È peraltro di questi giorni la notizia che dell’approvazione, da parte del comitato congiunto delle tre autorità di vigilanza UE (#EBA #ESMA #EIOPA), del report finale (con gli standard tecnici di regolamentazione) su contenuti, metodologie e criteri per la divulgazione delle informazioni di #sostenibilità di investitori e consulenti finanziari

[2] Per un approfondimento scientifico del framework normativo, sia consentito il rinvio a A. Mazzullo, (2021). Disclosure e sustainable finance. Dall'informazione del cliente alla conformazione del mercato sostenibile, in jus on line; Id, (2020). Rethinking Taxation of Impact Investments. In Contemporary Issues in Sustainable Finance (pp. 37-59). Palgrave Macmillan, Cham; Id, (2019). Diritto dell’imprenditoria sociale. Dall’impresa sociale all’impact investing, Giappichelli.

[3] Sul punto, per un approfondimento scientifico, si rinvia a A. Mazzullo, (2020). Rethinking Taxation of Impact Investments. In Contemporary Issues in Sustainable Finance (pp. 37-59). Palgrave Macmillan, Cham; Id, (2019)

[4] Sia consentito il rinvio anche a Mazzullo, A. (2019). Il rovescio della moneta: per un'etica del denaro. Edizioni Dehoniane Bologna.


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