Dentro il sacro

“Dio è gioco, perché è libertà”. Dialogo con Aldo N. Terrin

di Marco Dotti

Liturgia significa, letteralmente, "lavoro comune". Un "lavoro" che, oggi, allo sguardo occidentale appare freddo, troppo legato alle parole scritte o lette. Abbiamo perso l'aspetto ludico del rito avverte un grande studioso, ed è un male per tutti. Anche per una società che si reputa laica e secolarizzata, ma non lo è.

"Questo è un gioco" è il meta-messaggio che, osservava Gregory Bateson, interrompendo il quotidiano crea la cornice dentro la quale è possibile giocare. Un gioco è sempre qualcosa di cui possiamo dire "questo è un gioco". Ogni attività di gioco (play) si basa sul presupposto di questo meta-messaggio che sospende il tempo ordinario e circoscrive uno spazio.

Fuori da questo tempo e da questo spazio, non vi sarebbe gioco, ma un cortocircuito che ne consuma valore e simboli. Nel gioco (game) si crea un mondo dentro il mondo, un mondo fittizio retto da regole che sospendono aspettative e logiche del quotidiano.

Per questa ragione, accostandolo all'estasi, Georges Bataille poteva affermare che il gioco si colloca "al di là dell'utile".

Al di là del calcolo

Che cosa accomuna gioco e liturgia, gioco e rito se non quella proiezione al di là dell'utile, dei commerci, dei calcoli che Georges Bataille definiva nei termini di dispendio improduttivo? Sarifici, rituali, tempi apparentemente morti e sottratti al commercio, economia del dono: anche questo è dispendio, dépense. Il gioco come fatto sociale totale, allora? Forse sì, ma un fatto sociale totale "useless", oltre che "meaningless". Del gioco, insomma, "non si dà perché".

“Liturgia”, "rito" e “gioco” sono però termini che il senso comune non associa facilmente. Libertà e regole sembrano sempre più in constrasto e, a un primo sguardo, gioco e liturgia (e rito) sembrerebbero riferirsi a pratiche molto distanti fra loro, se non del tutto divergenti per tonalità emotiva e struttura.

Eppure è possibile e forse più che mai necessario interrogare la liturgia come gioco e, con essa, il rito come gioco.

Nella liturgia del gioco, la cosa importante diventa "ciò che si fa, non ciò che si pensa o si crede". Incontriamo Aldo Natale Terrin, professore emerito dell'Istituto di Liturgia Pastorale di S. Giustina, a Padova, che all'argomento ha da poco dedicato un libro molto bello, Liturgia come gioco, edito dalla casa editrice Morcelliana. Già docente di fenomenologia delle religioni, Terrin è autore di molti lavori, editi dalla casa editrice Morcelliana, tra cui segnaliamo: Il rito (1999), Mistiche dell'Occidente (2001), Religione e neuroscienze (2004), Il mito delle acque in Oriente (2012). Tra le altre cose, ha curato l'edizione dello studio di Rudolf Otto, Il sacro.


Liturgia come gioco: intende affermare che la natura del rito e della liturgia è intimamente legata alla dimensione ludica?

Ritengo che la liturgia e, in genere, il rito abbiano una stretta affinità con il gioco, come è dimostrato dalla storia delle religioni.

L'affinità tra il rito e il gioco rispecchia la parentela tra il “credente” e il “giocatore”: il credente è chi sa immaginare un mondo oltre questo mondo e dunque è uno che mette in moto a livello comunitario una “vis imaginativa” di eccezionale valore.

Crea una “performance simbolica” che esprime attraverso segni, simboli, metafore, esperienze spaziali e temporali fuori dal comune, esprime qualcosa di diverso e di sublime.
Ma lo stesso avviene nel gioco.

Il gioco “porta fuori” i giocatori in un mondo creato in proprio dove ci sono regole proprie: il gioco crea un “mondo nel mondo” con comportamenti adeguati e liberi rispetto al mondo reale. Così se in ogni gioco il mondo reale è “insufficiente” e viene messo in parentesi, allo stesso modo, in ogni rito il mondo reale è “troppo povero” per non essere trasformato e sublimato. Come vede, tra rito e gioco vi sono delle affinità di eccezionale valore.

A lungo si è parlato, in termini sociologici, di un’eclisse del sacro. Noi potremmo oggi parlare di un’eclisse della liturgia come gioco? Quali sono state, in tal caso, le ragioni che ci hanno portato su questa strada?

L'eclisse del sacro è sicuramente specchio dell'eclisse della liturgia come gioco.

Non siamo più capaci di “giocare”. Siamo diventati tutti “seri”, siamo “calcolatori”, siamo tutti “ragionieri!" e impieghiamo soltanto l'emisfero sinistro del cervello, mentre Dio è gioco, è libertà e perciò non lo capiamo più.

Purtroppo, l'Illuminismo è entrato pesantemente nella religione e l'ha resa sterile. Non gustiamo più la granatuità, la libertà, l' “in-utilità”. Eppure Dio è gioco, soprattutto nella visione orientale. Il concetto di “lila” in Oriente traduce il senso religioso nella sua forma più completa.

Lila è lo scopo senza scopo degli dei, è il fluire spontaneo della realtà multiforme, e per questo è la stessa manifestazione del divino. Tutto il mondo è un grande gioco degli dei, è un infinito scorrere della diversità, è un caleidoscopio di forme che non può essere definito, imbrigliato dalla ragione. Il mondo nella sua forma diveniente e cangiante non trova un fondamento nella ragione – direbbe il senso religioso orientale – ma trova la giusta espressione nel gioco e nel ludico. Si è smarrita l'idea del sacro perché si è smarrito il senso del gioco della vita.

Uscire dal gioco


L'antropologa francese Roberte Hamayon afferma che giocare è «faire autre chose, ailleurs et autrement». Nel suo lavoro, la Hamayon sostiene però che l’eclisse del gioco nella società occidentale sia in qualche modo imputabile all’interdetto che la Chiesa pose su spettacoli e divertimenti. Cito la Hamayon, che è un’esperta di rituali altaici e siberiani, perché la stessa insiste sul fatto che questo interdetto, toccando il corpo, avrebbe disgiunto irrimediabilmente musica, danza e liturgia. In realtà, sappiamo che le cose sono più complesse. Lei come legge, dal suo punto di vista, questo tema che inevitabilmente ci riporta alla questione della performance e dei segni?

Che l'eclisse del gioco in Occidente sia imputabile alla Chiesa è – a mio avviso – soltanto una parte della verità. Il divieto già presente in Sant' Agostino di canto, musica e danza è stato sicuramente negativo e ha avuto il suo peso nella storia della liturgia e della ritualità cristiana. Ma come spiegare il fatto che nel Medioevo avevano preso piede di nuovo nella liturgia forme di teatro, di vero ludus sacer – ciò che io cerco di mettere in luce nel libro – nonostante l'interdetto dei primi tempi cristiani? A mio avviso, non si poteva negare la natura profonda del rapporto rito/teatro/gioco – come oggi viene affermato per esempio da R. Schechner. Ora, se il divario è invece avvenuto e ha per sempre isolato il rito dal teatro/gioco, credo che non lo si deve più agli interdetti della Chiesa delle origini, ma piuttosto a quell'interdetto ben più forte che è il Diktat della Ragione illuministica.

Anche il Romanticismo che ha fatto seguito all'Illuminismo non è più riuscito a risollevare le sorti di una visione più libera e globalizzante… in quanto la ragione è divenuta l'idea stessa direttiva della “Scienza” che ha fatto morire il mondo dei sentimenti per dare spazio soltanto alla razionalità. La Chiesa a sua volta si è alleata a questa forma di “verità illuministica” e in queste sacche è morto il discorso rito/teatro.

È la ragione illuministica che ha spento per sempre in Occidente l'idea del rito come gioco, come danza, come “divertimento”- “divertissement” à la Pascal. Tale ragione è riuscita disgraziatamente a rendere povera ogni esperienza di “festa”, di libertà, di “gratuità”.

L’indologo Frits Staal, che ha dedicato molti studi al rapporto fra rito e senso, affermava che il rito è senza significato (meaningless). In un suo celebre articolo, dedicato al rituale vedico, forse il più antico dei rituali, Staal parla di “meaningless of ritual”. Lei è d’accordo con questa affermazione?

Le idee dell'indologo Frits Staal sono ben conosciute dagli studiosi del rito perché egli ha dedicato molta parte della sua vita a studiare il rituale dell'Agnicayana, uno dei riti più importanti e più difficili a comprendere di tutto il mondo vedico antico. È ben conosciuta anche la sua teoria circa il valore del rito. Egli ritiene che essenzialmente ogni rito valga per la sua “semiotica” ma non per la sua presunta “semantica”. Che cosa si intende dire? I riti avrebbero una struttura linguistica e un linguaggio verbale ed extra-verbale che appare funzionare come ogni altro sistema di segni e simboli. C'è un linguaggio fatto di proposizioni, ci sono dei gesti, c'è una struttura che appare logica e comprensibile, ma per Staal questo linguaggio è soltanto apparentemente un vero linguaggio. Infatti il suo valore “semantico” appare incomprensibile, anzi è uguale a zero: è “senza senso”, “meaningless”.

È qualcosa come il “canto degli uccelli” (birdsong). Devo dire che la tesi di Staal – almeno in parte – è suggestiva e affascinante, in quanto coglie un aspetto importante di ogni rituale. Il rito non è fatto per dare nuovi significati alla realtà o alle religioni. Il significato è già incluso, già presupposto, il rito esprime piuttosto un “significato di libertà” che sconfina in qualche modo con il “non significato” o meglio sconfina con un atto di gratuità dove anche il significato passa in secondo ordine. Come ho scritto nel libro, il rito non è pertanto “meaningless”, ma è semmai “useless”. Bisogna saper calibrare bene i diversi accenti attribuibili al rito nella nostra visione moderna dove tutto è strumentalizzato, portato alla sua efficacia, mentre il rito non può essere sottomesso a questa “funzionalità” e “strumentalità”.

Significato e finalità non sono la stessa cosa e, in questo senso, Romano Guardini – uno degli ultimi con Odo Casel a parlare di liturgia e gioco – affermava che come il gioco, la liturgia è fine a se stessa. Letteralmente “non è utile”. Forse è questa non utilità, così in contrasto con lo l’air du temps, ad avere consegnato sia la liturgia sia il gioco a orizzonti che li hanno a poco a poco consumati?

Credo che si sia realizzato proprio questo processo e che la deriva del rito e della liturgia siano il frutto di questo modo di pensare che domina totalmente il nostro mondo culturale. L' “in-utile” è semplicemente – per i più nella nostra cultura – ciò che è “senza senso”. Un'equazione devastante e desolante.


Ridurre il gioco a calcolo, ridurre l'uomo a niente

Oggi, l’idea stessa di gioco – nella sua polisemia – è sottoposta a un costante riduzionismo: psicologico, sociologico, etc. Da un lato, l’homo ludens, su cui abbiamo ricerca storica (Huizinga) e fenomenologica (penso a Eugen Fink, in particolare al suo corso del 1955, dedicato ai “fenomeni fondamentali dell’esistenza umana”) si è mutato in una sorta di homo illudens, dall’altro proprio il fenomeno fondamentale che chiamiamo” gioco”, citando ancora Fink, “continua a fuggire il concetto”. Resta problematica e per certi versi insondabile proprio la dimensione ludica della nostra esistenza, ma questo vale anche per le grandi questioni del rito e del sacro, a cui lei ha dedicato molti studi. Forse abbiamo dimenticato che il gioco (play) – qui è stato Caillois, ma più ancora Bateson a indicarcelo – è al tempo stesso libero e mosso entro un frame di regole (game)? La questione delle regole del gioco (e del rito) mi pare fondamentale, per esempio, nella riflessione di Guardini che affermava che “«Solo chi sa prender sul serio l'arte e il gioco può comprendere perché con tanta severità e accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni”…

Che il gioco oggi venga sempre meno preso in considerazione e che teoreticamente venga contestato è frutto della stessa visione illuministica di cui parlavo precedentemente. La visione illuministica tuttora dominante porta sicuramente a una grave perdita antropologica. Direi che costituisce il male essenziale della nostra cultura. È una cultura che non sa più “prendersi alla leggera”, “ridere di se stessa” e del proprio mondo. È una malattia mortale!

Lei, però, qui porta il discorso anche su due problemi di confine e tuttavia essenziali anche se ben distinti nella concezione del gioco. Da una parte, sull'idea di gioco come illusio. Si potrebbero e si dovrebbero fare molte riflessioni antropologiche profonde su questo tema. L'illusio o meglio direi l'in-lusio è l' “alludere”, è il “riferimento trattenuto” perché frutto dell'immaginazione. Riferendoci a Eugen Fink ripeterei la sua idea “cosmica” di gioco, tramite Eraclito: “il corso del mondo è un bambino che gioca …”. Ma questa visione e forza dell'immaginazione creatrice sono essenziali per l'uomo. L'immaginazione creatrice fa parte del gioco ed è anzi un'estensione della sostanza dell'uomo, in nulla differente dalla pelle o dalle mani.

Siamo il nostro “pensiero libero” e facciamo parte di un grande gioco nella misura in cui sappiamo ancora “illuderci”, avere riferimenti, ideali, spunti metaforici sublimi, finché abbiamo “musica dentro di noi”. E tutto questo è vita. Dall'altra, lei porta giustamente il discorso anche sulle regole del gioco. Le regole nel gioco a loro volta sono fondamentali. Sono non soltanto importanti, ma essenziali, in quanto se non ci fossero le regole non ci sarebbe neppure il gioco. Ma forse che la musica e la danza non hanno regole? In realtà sono le regole che permettono di creare un mondo fuori dal mondo. Sono il frame di G. Bateson: senza la cornice il quadro non esisterebbe…

Un Dio che danza

Shiva è un dio danzante. Al fondamento del mito, spesso, c’è un gioco. Questo ci rimanda alla questione del sacro e a quell’intreccio originario che – tramite musica o danza – lo lega al gioco. “In cielo c’è una danza”, scriveva Van der Leeuw. Questo è un punto nodale del suo discorso…Crede che questo intreccio originario sia andato irrimediabilmente perduto o riaffiori i qualche modo nel contemporaneo?

Il mito di Shiva – che lei nomina – dice espressamente che il Dio Shiva ha creato il mondo con tre passi di danza. L'Oriente – a mio avviso – ci insegnerebbe molto anche a livello religioso sull'importanza del gioco, come ho già accennato qua e là. In altri passaggi si dice anche che gli dei sono innamorati della musica e stanno ad ascoltare i riti perché nei riti c'è tanta musica e perché comunicano tanta gioia. Naturalmente traduco qui in maniera libera un pensiero che attraversa tutto il mondo indù.
Ma che cosa dire in rapporto al nostro mondo contemporaneo? C'è ancora il senso del gioco, della musica, dell'arte in senso partecipativo e fino a che punto questo si coniuga con l'idea del sacro?

Mi ripeto la domanda da solo, non perché la Sua non sia chiara, ma perché la risposta va – come dire – “sospesa” nella misura in cui, in questo caso, ritengo la domanda più preziosa di una qualsiasi risposta, che darebbe il senso di essere “confezionata” e perciò anche poco intelligente.

Nella liturgia cristiana oggi si vive poco l'esperienza religiosa. Il rito è troppo “ingessato” e la liturgia troppo povera di gesti, di simboli, di vitalità. Non a caso sono nati in questi ultimi decenni esperienze religiose che mettono di nuovo al centro la liturgia nella sua dinamica simbolica riuscendo ad attrarre una moltitudine di nuovi credenti.

Mi riferisco in particolare ai Neo-pentecostali e carismatici. Queste nuove correnti di religiosità e ritualità costituiscono un messaggio importante che ci dice che è ancora possibile coniugare il sacro con il gioco e con il rito. E proprio questa coniugazione è diventata in alcuni Nuovi Movimenti Religiosi la carta vincente.

Nella cultura e nell'arte contemporanea il discorso è fattibile, ma mi sembra che non si sia ancora realizzato. La cultura “estetizzante” contemporanea porta dentro di sé la nostalgia del sacro, ma lo considera forse ancora un retaggio del passato, di cui si può fare a meno. L'arte – a sua volta – in tutte le sue forme, mi sembra a volte seguire criteri “troppo formali” per accorgersi che dietro a ogni vera concezione artistica vi è l'in-lusio di cui prima si parlava, intesa come “rimando”, come “suggestione”, come “un mondo oltre il mondo”.

Alla liturgia e alla ritualità spetta – in questo senso – un compito importante: l'impresa di inculturare in senso ludico il mondo della cultura e dell'arte per avvicinarlo al sacro.

Aggiungo che questo compito non lo ritengo un'impresa impossibile poiché dentro di noi tutti vi è sempre una dimensione essenzialmente ludica – basta riscoprirla, così come il sacro è un “apriori religioso” presente in noi ma che abbiamo il compito di reinventare.

L'ospite

Aldo Natale Terrin è professore emerito presso l'Istituto di Liturgia Pastorale di Padova. Utilizzando un metodo di indagine comparativo e fenomenologico, nelle sue ricerche teologiche si è occupato dell'analisi di alcuni temi chiave (tra cui mistica, rito, salvezza, profezia, liturgia) delle religioni mondiali e dei nuovi movimenti religiosi, giungendo a sottolineare l'intreccio tra sfera del sacro e dimensione antropologica. Tra le sue opere: Il respiro religioso dell’Oriente (Bologna, 1997); Il rito. Antropologia e fenomenologia della ritualità (Brescia, 1999); Mistiche dell’Occidente (Brescia, 2001); Religione e neuroscienze (Brescia, 2004); Liturgia ed estetica (a cura di, Padova, 2006); Riti religiosi e riti secolari (a cura di, Padova, 2007); L'Oriente e noi. Orientalismo e postmoderno (Brescia, 2007); Liturgia e inculturazione (a cura di, Padova 2009); La natura del rito. Tradizione e rinnovamento (a cura di, Padova, 2010); Religione visibile. La forza delle immagini nella ritualità e nella fede (Brescia, 2011).


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