Marco Tarchi

L’Italia è populista?

di Redazione

Il termine “populismo” è tra i ricorrenti nel dibattito politico odierno. Viene frequentemente utilizzato come elemento discriminatorio nei confronti dell’una piuttosto che dell’altra forza politica. Ne parliamo con il professor Marco Tarchi, docente di Scienza Politica all’Università di Firenze

Il termine “populismo” è uno dei più ricorrenti nel dibattito politico odierno. Viene frequentemente utilizzato come elemento discriminatorio nei confronti dell’una piuttosto che dell’altra forza politica. Al fine di sgomberare il campo da interpretazioni fuorvianti, dopo l’intervista di Marco Dotti a Alain de Benoist proseguiamo la nostra indagine sul “momento populista” e ne parliamo con il professor Marco Tarchi, docente di Scienza Politica all’Università di Firenze, tra i massimi esperti della questione, nonché autore del libro Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (Il Mulino).

Essendo lei uno dei massimi studiosi di tale fenomeno potrebbe darci una definizione appropriata del termine “populismo”?
La definizione che ne ho fornita nel mio libro Italia populista è la seguente: “la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”. A distanza di quasi tre anni, la trovo più che mai appropriata.

Quali sono le condizioni ideali che permettono l’attecchimento e lo sviluppo di tale fenomeno?
Situazioni di crisi e di diffusa sfiducia verso la classe politica, che possono essere determinate dai fattori che ho indicato nella definizione appena citata. In questo senso, il populismo non è, come spesso si sostiene, un fattore di logoramento dei sistemi politici democratici, ma un prodotto delle loro insufficienze.

Quali i fini politici perseguiti dai promotori?
In astratto – o, se si preferisce, nel lungo o lunghissimo periodo, la restaurazione di quella unità ed armonia del corpo popolare che è alla radice del loro immaginario. Concretamente e in termini di tempo meno dilatati, la conquista del potere di governo, auspicabilmente da soli per evitare di dover subire condizionamenti ed intralci, per mettere in atto quelle riforme che reputano essenziali per raggiungere i fini ultimi. Di solito, fra i primi provvedimenti auspicato c’è l’avvio di procedure di democrazia diretta che si sostituiscano progressivamente alle istituzioni fondate sul principio della rappresentanza indiretta, che agli occhi dei populisti non è altro che un meccanismo volto ad espropriare il popolo delle prerogative di autogoverno che gli spetterebbero. Ovviamente, a questi progetti se ne affiancano altri in vari ambiti, sempre indirizzati allo scopo principale.

Il populismo non è, come spesso si sostiene, un fattore di logoramento dei sistemi politici democratici, ma un prodotto delle loro insufficienze

Marco Tarchi

Può il populismo essere incarnato da esponenti delle istituzioni? In caso affermativo può illustrare qualche esempio?
Se ci si riferisce alle tradizionali istituzioni rappresentative, è senz’altro possibile che chi ne fa parte o le dirige utilizzi il gergo e la retorica del populismo; ma si tratta in genere di usi strumentali, che non si raccordano alla mentalità cui ho fatto cenno. Di questi tempi, non pochi politici di professione, esponenti di quello che i populisti definiscono l’establishment, rendendosi conto della presa che talune argomentazioni tipicamente populiste hanno su settori importanti della pubblica opinione, le prendono a prestito per far concorrenza a questi avversari sul loro stesso terreno. Si spiega così perché Renzi, ad esempio, faccia frequente ricorso ad aspri attacchi verbali contro soggetti che i populisti mettono alla berlina: i “burocrati di Bruxelles”, “l’Europa delle banche e della finanza” e così via.

Nel suo libro Italia populista lei definisce il Paese come un laboratorio del populismo. Potrebbe fornirci le ragioni di questa sua valutazione?
Mi pare che la storia politica dell’Italia repubblicana dimostri abbondantemente che sul nostro suolo sono state sperimentate le forme più diverse di populismo: il qualunquismo, il laurismo, alcuni aspetti del radicalismo pannelliano, il leghismo, il dipietrismo, la Rete di Orlando, il berlusconismo, i girotondi, fino a giungere alla predicazione di Beppe Grillo; e l’elenco potrebbe ampliarsi. Nel mio libro ho cercato di mettere in evidenza tutti i caratteri, quelli comuni e quelli specifici, di questi fenomeni, che autorizzano a parlare di un vero e proprio laboratorio. Ma prima di me se ne era accorto lo storico latinoamericanista Loris Zanatta, a cui si deve il conio di questa espressione. Lo storico e politologo francese Guy Hermet è andato oltre, parlando dell’Italia, per gli stessi motivi, come del “paradiso populista”.

Di questi tempi, non pochi politici di professione, esponenti di quello che i populisti definiscono l’establishment, rendendosi conto della presa che talune argomentazioni tipicamente populiste hanno su settori importanti della pubblica opinione Si spiega così perché Renzi, ad esempio, faccia frequente ricorso ad aspri attacchi verbali contro soggetti che i populisti mettono alla berlina: i “burocrati di Bruxelles”, “l’Europa delle banche e della finanza”

Marco Tarchi

È corretto interpretare come ondata populista i più recenti avvenimenti politici che di recente hanno interessato Europa e Stati Uniti?
Sì, purché non si faccia di ogni erba un fascio e si sappia distinguere la specificità di ciascuno dei fenomeni che l’hanno caratterizzata: nella Brexit, nell’elezione di Trump e nei successi dei partiti di Marine Le Pen, Geert Wijlders e Hans-Christian Strache ci sono elementi accomunanti ma anche non secondarie differenze.

I movimenti e i partiti di “destra radicale” che stanno avanzando in varie parti d’Europa possono essere ricompresi nella categoria del populismo?
Dipende. Diffido della pur molto utilizzata etichetta di “partiti della destra radicale populista”, perché, come ho dimostrato in modo argomentato nel libro da Lei citato, la destra radicale o estrema destra – e anche qui ci si imbatte nella scivolosità delle classificazioni, sulle quali in campo scientifico si è ben lungi dal registrare una concordanza – si differenzia dal populismo per un gran numero di aspetti. Del resto, nell’un ambito si può parlare di una vera e propria ideologia, mentre nel secondo ci si trova di fronte a una mentalità caratteristica: sono entità diverse. Ciò spiega perché esse assegnino significati diversi a concetti fondamentali, come popolo, nazione, Stato, società, individuo, leader, élite, democrazia, mercato – e di conseguenza li utilizzino in modi a volte opposti. Ciò non impedisce di registrare alcune adiacenze o sovrapposizioni di alcune loro posizioni o campagne, o l’individuazione di bersagli polemici comuni. Ma, tanto per fare un esempio, c’è una netta diversità, in Germania, fra l’AfD (Alternative für Deutschland), populista, e la Npd (Nationaldemokratische Partei Deutschlands), di estrema destra, o in Italia fra Lega Nord e Forza Nuova.

Quali sono in Italia i partiti o movimenti che potremmo definire populisti? E per quali caratteristiche?
Le caratteristiche, ovviamente, devono essere quelle comprese nella definizione da cui ho preso le mosse. Se parliamo di un populismo puro, oggi in Italia ne vedo due manifestazioni: la Lega Nord e il discorso politico di Grillo, che io separo dall’azione politica del Movimento Cinque Stelle perché più volte, su questioni non secondarie, i “grillini” hanno preso strade diverse da quelle indicate dal loro “garante” o “megafono” (basta pensare al problema dell’immigrazione). Io comunque non ho una visione monolitica del populismo: essendo una mentalità, per sua natura fluida, lo si può trovare in diverse percentuali sparso in vari attori del sistema politico, e può essere che il M5S finisca per assorbirne dosi tali da poter essere assegnato a questa categoria, come già pensano vari altri studiosi, oppure che se ne liberi progressivamente, staccandosi dall’impronta del fondatore.


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