Maria Luisa Iavarone

Mio figlio accoltellato. Ma essere arrabbiata non serve

di Anna Spena

Maria Luisa Iavarone, mamma del ragazzo che è stato quasi ucciso da una baby gang a Napoli lo scorso dicembre, si racconta. «A mio figlio gli hanno fatto quello che gli hanno fatto. Non lo posso aiutare perché rimarrà ferito per sempre. Ma come cittadina mi posso impegnare affinché non ci siano altri Arturo, lasciati a morire in una pozza di sangue mentre i soccorsi non arrivano»

Se un pomeriggio di dicembre uno sconosciuto ti chiama per dirti che tuo figlio è a terra in una pozza di sangue, ed è lì da un po’ perché i soccorsi non arrivano, è possibile che il cuore di una mamma si fermi. A Maria Luisa Iavarone, che si fa chiamare Marisa, è successo così. «Annichilita. Freddata. Sorpresa», racconta. «Ma una madre che fa? Si rimbocca le maniche per portare in salvo suo figlio».

La storia di Arturo, il ragazzo 17enne, ferito con 12 coltellate a via Foria, Napoli, ormai la conosciamo bene. Aggredito da una baby gang ha rischiato di morire. Una coltellata ha mancato la carotide di due millimetri. «I soccorsi non sono arrivati per 45 minuti», continua Maria Luisa Iavarone. «Così quando finalmente un passante si è fermato ha avvicinato il telefono ad Arturo che ha digitato il mio numero. Questa scena nella mia vita è stata uno spartiacque: come fa una mamma a cancellarla?».

Ma andiamo oltre la semplice cronaca. «Ho pagato sulla mia pelle questa tragedia ed ho bisogno che qualcuno creda in questa cosa», dice Maria Luisa Iavarone. “La cosa” è il bisogno di non chiudersi nella rabbia «che non serve a niente», come ripete la mamma di Arturo. «Dobbiamo andare oltre e ricominciare a parlarci. Voglio creare una fondazione di comunità dove tutti sappiamo cosa succede ai nostri ragazzi. Dove nessuno è escluso. A mio figlio gli hanno fatto quello che gli hanno fatto. Lui non lo posso aiutare perché rimarrà ferito per sempre. Ma mi posso impegnare per una società più civile».

La storia di Arturo ha acceso le coscienze. Ed anche se i più che gridano “all’emergenze baby gang”, e si affannano per trovare un colpevole tra le famiglie disagiate, le istituzioni assenti e una scuola che non vuole più insegnare, Maria Luisa Iavarone, che un po’ è vittima anche lei e lavora come professore ordinario di pedagogia generale sociale all’università degli studi di Napoli Parthenope, è convinta che quello che è capitato a suo figlio è il sintomo di una società che non sa più parlarsi e non sa più educare.

Cosa prova una mamma?
Un genitore non dovrebbe mai vedere un figlio lasciato così in una pozza di sangue. I soccorsi che non arrivavano ed Arturo che in ospedale ce lo portiamo con una macchina privata. Non voglio cancellare quella immagine terribile. Perché ogni attimo di quella vicenda deve diventare una riflessione sul mancato soccorso: il sistema non ha funzionato in nessuno dei suoi tasselli. Perché dei ragazzini aggradiscono un altro ragazzino con dodici coltellate? Perché l’ambulanza non arrivava? Perché mio figlio è rimasto 45 minuti in una pozza di sangue? Erano le cinque di pomeriggio. Le diciasette di un pomeriggio natalizio, perché nessuno si è fermato per aiutare Arturo? Io non voglio trascurare nessuno degli aspetti di questa vicenda.

Dove sta il problema vero?
Il problema è sistemico. Non può essere letto da un unico punto di vista. Violenza, baby gang, mancanza di controllo e cattiva gestione del territorio. Sono questioni complesse e complesse dovrebbero essere anche le soluzioni che si mettono in campo per arginarle.

In che senso?
Oggi le baby gang sono la trascrizione di un rischio sociale in cui va incontro una città con tassi elevati di povertà. Questo fenomeno nasce all’ombra di un ambiente in cui ci sono grandi disuguaglianza sociali e culturali. Dobbiamo smetterla di puntare il dito una volta sulla scuola che non funzione, un’altra sulla politica, un’altra ancora sulle famiglie disagiate. Non dobbiamo trovare un solo responsabile. Siamo tutto responsabili. Il problema non è il singolo tassello ma l’incastro di tutti i tasselli. È come se volessimo giudicare un disegno guardando un solo particolare. La scuola non dialoga con la famiglia e si sente già sconfitta. A volte i genitori sono più aggressivi dei ragazzi. Istituzioni che rinunciano al loro ruolo formativo. Ragazzi lasciati in totale assenza di autorevolezza che se ne vanno in giro ad uccidere la gente.

Manca il dialogo e la relazione?
Il singolo pezzo non è rappresentativo di tutta la complessità del problema e se il sistema non funziona è perché non funzionano gli incastri. Si dovrebbe ragionare su grandi progetti. Tracciare le vite di questi “minori a rischio”. Oggi tracciamo la vita di tutti e non siamo in grado di individuare preventivamente situazioni di pericolo? Oggi per arrestare un ragazzino di una baby gang passano mesi e mesi neanche stessimo parlando di un super boss. È possibile questa cosa? Non dobbiamo fare un singolo progetto, ma fare in modo che i diversi progetti entrino in relazione tra loro. Nei concerti il direttore non sta a guardare il singolo strumento, ma l’insieme. Ogni musicista è responsabile del suo strumento che però è fondamentale per la riuscita del tutto. A noi mancano i progetti di regia. A Napoli ci vuole proprio una cabina di regia. Per esempio io sono stufa di vedere queste scuole che non denunciano.

Come sta Arturo?
Arturo non sta benissimo. Non sta andando a scuola. A tratti è sfiduciato. Sconfortato.

E lei come sta?
Io sono lucida. Perché la rabbia non serve a niente. Sono e voglio essere una professionista della formazione. Il dolore che produce altro dolore. Il dolore che porta al rancore non produce soluzioni intelligenti. La mia battaglia è invece quella di proporre soluzioni utili affinché per strada non ci siano più degli Arturo lasciati li a terra. A mio figlio gli hanno fatto quello che gli hanno fatto. Lui non lo posso aiutare perché rimarrà ferito per sempre. Ma mi posso impegnare per una società più civile. Ad Arturo non gli posso ridare indietro niente. Alla società sì.


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