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Roberto Mignone, Unhcr Libia

La soluzione per i rifugiati c’è ma è bloccata dalla miopia internazionale

di Daniele Biella

Intervista al capomissione - italiano - dell'Alto commissariato Onu a Tripoli, raggiunto da Vita.it mentre continua la guerra tra le milizie. "In 25 anni di esperienza non ho mai visto nulla peggio di quello che accade qui", racconta, "le evacuazioni in Niger e poi verso altri Stati occidentali sono l'unica via d'uscita per migliaia di persone intrappolate in mezzo alle violenze"

La situazione attuale a Tripoli, alla luce degli ultimi scontri, è più che tesa. Si sentono spari e colpi di mortaio e il controllo delle zone della città può passare da un momento all’altro di mano in mano, dalle forze fedeli al premier al Serraj a una delle altre milizie coinvolte nel conflitto per il controllo del territori. In mezzo, esposti a violenze indiscriminate, migliaia di potenziali rifugiati che già vivevano nella comunità cittadina in attesa di trovare il modo di uscire dal Paese o che si sono ritrovati fuori dai centri di detenzione ufficiali come quello di Tarek al Matar, essendo scappati dal centro dopo che i bombardamenti sono arrivati anche lì. “Stiamo cercando di mettere al sicuro più persone possibili”, spiega il torinese Roberto Mignone, capomissione dell’Unhcr (Alto commissariato delll’Onu per i rifugiati) in Libia, arrivato a inizio maggio 2017 con alle spalle 25 anni di esperienza nei 5 continenti, dal Mozambico a Panama e Guatemala, dall’India all’Australia fino all’isola greca di Lesbo, fino al penultimo impiego come Coordinatore delle equipe di emergenze dell`Unhcr.

Il capo dell’Unhcr, il connazionale Filippo Grandi, ha messo nero su bianco che la Libia non era un Paese sicuro prima degli ultimi scontri e ora più che mai. Anche da Tripoli negli ultimi giorni avete denunciato le gravi violazioni in atto, compresi atti crudeli verso i bambini e millantatori che si fanno passare per operatori Onu ma in realtà sono trafficanti. È così compromessa la realtà libica attuale?
Guardi, in 25 anni di operato per le Nazioni unite non ho mai visto nulla di simile. Una barbarie che non avevo trovato nemmeno in altre situazioni estreme, come per esempio le violenze dei paramilitari in Colombia verso le comunità di pace. Lì il senso era indebolire la resistenza della popolazione, qui invece è violenza gratuita e deviata: come fa un uomo a denudare un bimba (sudanese) di un anno davanti alla madre e al padre per strada, per poi torturarla e molestarla sessualmente? Per quale scopo, se queste persone non hanno neanche soldi da estorcere? La madre è stata anche violentata, il padre rapito da quelle stesse persone. Menomale che ora la bambina e sua madre verranno messe al sicuro da noi in un altro paese. È veramente arduo operare in Libia, anche per le Nazioni unite stesse.

Fin dove arriva la collaborazione con le autorità che controllano la zona di Tripoli e la Libia occidentale, ovvero quelle che fanno riferimento all’unico governo riconosciuto dalla Nazioni unite, quello di al Serraj?
Sono appena uscito da un incontro ufficiale per valutare le prossime azioni. Vedo che c’è volontà di arrivare a un miglioramento, ma è difficile dato che le milizie controllano una vasta parte del territorio. Detto questo, stiamo parlando comunque di uno Stato, la Libia, che non ha firmato la Convenzione sui Rifugiati del 1951 e non riconosce nemmeno quella omologa degli Stati africani del 1969 che pure ha firmato. Unhcr è qui dal 1991 ma non c’è mai stato un accordo per una sede ufficiale: la nostra presenza è solo tollerata e quindi abbiamo una posizione fragile al momento delle negoziazioni. Dagli scontri del 2014, in cui il personale internazionale dell`Onu è stato tutto evacuato, fino a febbraio 2018, inoltre, non c’è stata una nostra presenza fissa: io stesso nei primi mesi dell’incarico, da maggio 2017 appunto, facevo avanti e indietro da Tunisi. Ora a Tripoli siamo uno staff di sei internazionali più i locali, ma con almeno cinquanta altri internazionali pronti a venire nel momento in cui le condizioni di sicurezza migliorino concretamente.

Facciamo chiarezza sui numeri: quante persone sono presenti in Libia oggi tra rifugiati e migranti senza protezione?
Noi abbiamo registrato 55mila persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato in Libia negli ultimi anni o che sono tuttora richiedenti protezione internazionale. Il 70% di loro è di origine araba, é qui da molti anni ed è ben integrato. Il 30%, registrato soprattutto negli ultimi due anni, è di profughi provenienti soprattutto da Eritrea, Somalia, Sudan ed Etiopia. Poi c’è il resto del movimento migratorio, che è composto da diverse migliaia di persone, tra migranti e rifugiati, che sono o detenute nei circa 30 centri del Dcim, Dipartimento di lotta all’immigrazione irregolare del ministero degli Interni libico o nelle mani dei trafficanti di uomini.

Come opera Unhcr nei luoghi nel momento in cui i guardiacoste libici, sulla base degli accordi con l’Italia, riportano indietro chi intercettano in mare?
Abbiamo una presenza in ognuno dei 12 punti di sbarco della zona di Tripoli e dintorni con il nostro team di soccorso, attivo 24 ore. I funzionari libici ci segnalano per tempo lo sbarco delle persone intercettate o in certi casi salvate dall’acqua e noi ci rechiamo sulla banchina. In 6 punti, in collaborazione con l’ong International Medical Corps, assistiamo i migranti con coperte, cibo, acqua e cure mediche. Negli altri 6 di questo si occupa Oim – Organizzazione internazionale delle migrazioni, anch’esso ente dell’Onu – mentre noi ci concentriamo nella raccolta dei dati delle persone, cosa che facciamo comunque in tutti e 12 i luoghi. Non possiamo fare un elenco ufficiale perché le autorità libiche non ce lo permettono, ma comunque riusciamo a recuperare le informazioni necessarie per poi tracciare dove vengono portati, ovvero nei vari centri ufficiali del Dcim.

Unhcr entra nei centri di detenzione istituzionali?
Sì. Nel 2017 abbiamo fatto 1080 visite, quest’anno siamo a 900 in meno di nove mesi. Il numero dei centri varia continuamente perché molti vengono chiusi e poi riaperti altrove, a seconda delle tensioni tra le milizie della zona. In tutto sono una trentina, ma i più importanti, una decina, sono nella zona di Tripoli. In tempi normali, ovvero fino a pochi giorni fa prima dei recenti scontri, portavamo periodicamente assistenza materiale per tutti, comprese cure mediche come i trattamenti antiscabbia, necessari perché le condizioni in cui vengono tenute le persone in quei centri sono terribili, soprattutto per il sovraffollamento. Per quanto riguarda i documenti, fino allo scorso novembre potevamo registrare in detenzione solo le persone delle nove nazioni che potevano maggiormente “produrre” rifugiati, ovvero quelli con situazione di conclamato pericolo in patria come guerre o persecuzioni. Una volta registrate da noi, dovevo poi scrivere una lettera ufficiale per ciascuno di loro per chiederne la liberazione: era una trafila lunga ma funzionava, perché nel 2017 abbiamo liberato 1428 persone, che hanno ricevuto documenti di identità e assistenza nei centri comunitari dell’Unhcr, dove venivano offerti aiuti di vario tipo per inserirsi nella comunità, tra cui supporto economico per i più vulnerabili e formazione professionale, anche grazie a foster families, famiglie affidatarie in particolare per i minori. Ma dal novembre 2017, appunto, si è interrotto tutto: i libici non vogliono che rimanga nessuno sul loro territorio, quindi per intervistare un potenziale rifugiato in detenzione, e per farlo liberare bisogna evacuarlo dal Paese, dato che non ci sono ambasciate straniere a parte quella italiana e solo in casi eccezionali, con famiglie o persone vulnerabili, si è riusciti a fare le interviste via skype. Per questo abbiamo iniziato corpose evacuazioni verso il Niger, dove un team di Unhcr si occupa della richiesta d’asilo e del successivo ricollocamento in una nazione sicura dell’Unione europea o dell’America del Nord.

I ricollocamenti dal Niger stanno dando risultati?
Non soddisfacenti. Dall’avvio del meccanismo di emergenza per l’evacuazione dalla Libia abbiamo fatto partire – portandoli direttamente dai centri di detenzione agli aerei – 1858 persone: 312 in Italia, 10 in Romania, 1536 in Niger. Più 500 che partiranno appena possibile sempre per il Niger dalla città di Misurata, dato che l’aeroporto di Tripoli è stato bombardato. Per le persone portate in Niger, il sistema prevede l’intervista per il riconoscimento della protezione internazionale e poi il contatto con il Paese che li ospiterà. Questi paesi sono coordinati in un Core resettlement contact group, ma il sistema purtroppo si è inceppato: su un totale di 4mila posti che erano stati offerti per quest`anno dalla disponibilità degli Stati, in particolare quelli europei e il Canada, solo 438 sono partiti dal Niger verso questi paesi nel 2018. Quindi il sistema è attualmente molto lento, e ciò crea difficoltà ulteriore al governo nigerino, già provato dal fatto che stiamo parlando di una delle nazioni più povere e precarie al mondo (è notizia di martedì 18 settembre 2018 il rapimento da parte di estremisti di un religioso italiano, ndr).

Quindi la soluzione per la redistribuzione dei rifugiati c’è ma non viene messa in atto?
Proprio così. L’atteggiamento di alcuni Paesi occidentali è a dir poco miope: per far funzionare questo meccanismo legale e sicuro, basterebbe che ogni nazione si prendesse in carico 200-300 persone: un numero gestibile per tutti gli Stati Europei. Invece tutto va a rilento, nonostante il sistema sarebbe conveniente per tutti: per i rifugiati perché vanno via dalla Libia e arrivano al sicuro senza dovere rischiare la vita in mare, per la Libia stessa che non li vuole qui, per l'Europa perché non arrivano quasi tutti nello stesso paese , e per i Paesi europei perché non arrivano tutti nello stesso luogo (come avviene per Grecia, Italia e Spagna) e ciascun Paese avrebbe la possibilità di selezionare le persone prima del loro arrivo, abbassando quindi i timori per la sicurezza interna. Abbiamo anche un altro programma attivo, per il ricollocamento diretto senza passare dal Niger dei rifugiati presenti in Libia nella comunità che ora, a causa dell’estrema insicurezza e la loro vulnerabilità, necessitano di essere trasferiti in Paesi più sicuri. Sono già 800 le persone, famiglie e singoli, per cui l'Unhcr ha fatto tutto il procedimento ed i documenti e sono pronti a partire, i primi 100 andranno in Norvegia a breve. L'Unhcr in Libia ha anche ristrutturato un centro di transito per mille persone con strutture di alta qualità e come una piattaforma per fare partire questi rifugiati verso Europa e Canada direttamente o via Niger. Il centro è pronto da metà luglio ma le autorità libiche ancora non ci hanno autorizzato ad aprirlo.


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