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Valentina Conti

Neuronarrazioni: sono le storie che ci fanno umani

di Marco Dotti

Siamo sommersi di storie, perché siamo fatti di storie. Sono proprio le storie, spiega in questa intervista la studiosa Valentina Conti, «ad attribuire un significato profondo a tutto ciò che accade, che altrimenti si ridurrebbe a una sequenza insensata e intollerabile di eventi». Per questo, «nella dinamica divoratrice dell’entropia globale in cui sono immerse e si intrecciano le nostre esistenze, le narrazioni fungono da catalizzatori, offrendo un orientamento e una presa di distanza critica»

Narrare necesse est. Abbiamo bisogno di storie e ogni storia, per esistere, deve essere raccontata. Sono proprio le storie, racconta Valentina Conti, «ad attribuire un significato profondo a tutto ciò che accade, che altrimenti si ridurrebbe a una sequenza insensata e intollerabile di eventi». Per questo, «nella dinamica divoratrice dell’entropia globale in cui sono immerse e si intrecciano le nostre esistenze, le narrazioni fungono da catalizzatori, offrendo un orientamento e una presa di distanza critica» .

Specializzata in narratologia – disciplina che «sta trovando oggi sempre più stimoli nella psicologia genetica e cognitivista, nelle teorie della mente e nelle neuroscienze» -, docente e ricercatrice all’Università di Modena e Reggio Emilia, Valentina Conti ha scritto Per una narratologia interculturale (Mimesis edizioni, 2020) e, con Stefano Calabrese, il recentissimo Neuronarrazioni (Editrice Bibliografica, Milano 2020, pagine 136, euro 9,40).

Proprio su Neuronarrazioni, libro particolarmente denso e importante, soprattutto oggi, ragioniamo con lei.

Homo narrans: l'istinto di narrare

Le narrazioni costituiscono palestre per addestrarci a interpretare il mondo: in questo senso, come scrivete nelle prime pagine di Neuronarrazioni, il concetto di narratività è divenuto cruciale” fuoriuscendo dal mero ambito letterario ha invaso o, forse, contribuito a creare «sfere semiotiche del tutto nuove».

Le pratiche narrative si trovano al centro di un territorio che, in gran parte, ci è ancora ignoto. Come orientarci?
Tutto è narrazione. È semplice: la narratività consiste nel mettere in ordine eventi secondo un ordine cronologico e un principio di causa-effetto, ossia in base a un processo che potremmo definire logistico (“quello è avvenuto prima di questo”, “quello è la causa di questo”, e viceversa). Le narrazioni categorizzano l’ambiente, qualsiasi esso sia, mettendo in sequenza fatti ed eventi; senza contare poi che, grazie alle scienze neuro-cognitive, abbiamo compreso che impariamo a conoscere e interpretare il mondo attraverso modelli cognitivi essenziali: frames e scripts.

Ad ogni accadimento viene apposta un’etichetta semantica (frame) registrata nella memoria semantica, la quale viene conseguentemente inserita dalla memoria episodica all’interno di una catena processuale (scripts), che ci permetterà di predire gli eventi futuri, sulla base di schemi pregressi. Ma attenzione: questi ultimi vengono continuamente aggiornati non solo in base all’esperienza, ma altresì per mezzo delle narrazioni.

Pertanto, a partire dai tre anni di vita iniziamo a elaborare uno stile di storytelling che ci consente di classificare la rappresentazione mentale della situazione in cui ci troviamo; al tempo stesso,è possibile esplicitare questo modo classificatorio della realtà basato sui frames e gli scriptssolo grazie allo storytelling, grazie al narrare. Insomma, e qui mi ripeto, tutto è narrazione.

Come considerare questo istinto a generare storie che sembra tipico della specie umana? Un mondo popolato di storie è qualcosa di “nuovo” o è il frutto di una dimensione adattiva tipica della specie umana?
L’evoluzione cognitiva deriva da un processo adattivo di selezione naturale, rispetto a cui anche la produzione letteraria si configura inevitabilmente come un prodotto. Si tratta dunque di considerare la letteratura, e l’attività narrativa più in generale, nella sua coevoluzione con la struttura del cervello umano.

Le pitture e le incisioni rupestri riportate sulle pareti di grotte risalenti alla preistoria a partire dal Paleolitico, ne sono la prova: per tale motivo, il Professor Stefano Calabrese – così come altri illustri esponenti a livello internazionale del cosiddetto Literary Darwinism – utilizza il concetto di Homo Narrans quale codice identificativo della specie umana.

Di forte impatto, sicuramente, ma la capacità di elaborare una narrazione (storytelling) è stata e sarà sempre imprescindibile per classificare ogni situazione possibile.Infatti, diamo una forma al mondo circostante grazie alle narrazioni, per cui senza esse non si può costruire identità, relazioni, cultura, ragionamento, esperienza; in una parola: la realtà.

Nella dinamica divoratrice dell’entropia globale in cui sono immerse e si intrecciano le nostre esistenze, le narrazioni fungono da catalizzatori, offrendo un orientamento e una presa di distanza critica

Valentina Conti

Il tema del web: ne stiamo “fruendo” tutti, in misura più immersiva e massiva rispetto a prima. Per lavoro, per studio, per svago. Questo modifica o semplicemente intensifica lo scenario di quei sistemi di lettura non sequenziali che, come scrivete in Neuronarrazioni, hanno fatto “emergere un nuovo modello di empatia”?
Sicuramente tutto ciò implica un profondo cambiamento sotto vari punti di vista. La fruizione massiva di storie che il Web ci offre sembra non solo modificare il modo in cui comunichiamo, ci relazioniamo, raccontiamo, ma altresì avere un forte impatto a livello cerebrale e identitario. Si può dire che il cyberspazio consenta la costituzione di un nuovo territorio sociale e fortemente interattivo, in particolare grazie ai servizi di blogging e microblogging su cui si ergono la maggior parte dei social network, e non solo.

Basti pensare che nel mondo virtuale le interazioni sociali e le relazioni si strutturano in termini spazio-temporali a un livello “sovraculturale”, coinvolgendo continuamente e in qualsiasi momento una molteplicità di persone su grandi distanze, e imponendo patternssemiotici e narrativi, caratterizzati dalla brevitas, l’istantaneità e la frammentarietà di un post. Mi spiego meglio: il Web offre la possibilità di costituire narrazioni simultanee (o quasi) a eventi, attività, pensieri e sentimentivissuti, che al tempo stesso vengono ampliate dalle esperienze condivise dagli altri utenti e adattate in base ai feedback di questi ultimi. Nondimeno, il confine tra l’autore e il lettore viene meno: io scrivo, affinché qualcun altro legga e, a sua volta, scriva, aggiungendo un ulteriore tassello al flusso narrativo.

Nolenti o dolenti, sembra che sia proprio il terreno aleatorio e senza confini della rete a configurarsi come il luogo privilegiato per la creazione di ciò che Fred Casmir ha definito “terza cultura”, uno spazio cognitivo che incorpora gli aspetti (metodi, sistemi, valori, obiettivi ecc.) di due – in questo caso molte di più – culture, rimanendo tuttavia separato e distinto, e caratterizzato da un tipo di comunicazione nuovo e interattivo.

Un assioma della medicina narrativa consiste nel fatto che anche la narrazione del paziente e del suo vissuto di malattia diventano centrali, al pari dei sintomi fisici della malattia. Pertanto, non si tratta di sostituire le pratiche mediche già esistenti, ma solo di arricchirle, dando importanza ai diversi punti di vista degli “attori” che agiscono nel processo di cura (operatori, medici, pazienti), al fine di progettare interventi clinico-assistenziali più completi, personalizzati ed efficaci

Valentina Conti

La cura delle storie, curare con le storie

In queste settimane, particolarmente critiche per il nostro Paese, emerge con forza un tema che trattate ampiamente nel libro: la rilevanza delle storie nelle pratiche di cura. Sembrava un tema vagamente specialistico, invece ora scopriamo l’importanza delle narrazioni come cura tanto sul piano della relazione medico-paziente, quando di quello generale (il racconto complessivo e collettivo della cura)… Ci aiutate a capire?
Per capire è innanzitutto necessario considerare che l’approccio medico basato sulla medicina narrativa (narrative based medicine) nasce e si sviluppa verso la fine degli anni Novanta alla Columbia University di New York per merito Rita Charon – medico internista statunitense – allo scopo principale di sensibilizzare il mondo medico a utilizzare un orientamento “narrativo” all’interno della relazione con il paziente. Dunque, la narrative medicine(che in italiano traduciamo letteralmente con medicina narrativa) trae le proprie origini dalla particolare esigenza di integrare alla cosiddetta medicina basata sulle prove di efficacia (evidence based medicine) – ossia la tradizionale pratica medica fondata su un orientamento prettamente quantitativo – un approccio qualitativo che valorizzi il paziente e il suo percorso di cura attraverso la narrazione e la comunicazione.

In altri termini, quello che possiamo definire un assioma della medicina narrativa consiste nel fatto che anche la narrazione del paziente e del suo vissuto di malattia diventano centrali, al pari dei sintomi fisici della malattia. Pertanto, non si tratta di sostituire le pratiche mediche già esistenti, ma solo di arricchirle, dando importanza ai diversi punti di vista degli “attori” che agiscono nel processo di cura (operatori, medici, pazienti), al fine di progettare interventi clinico-assistenziali più completi, personalizzati ed efficaci.

In tal modo, la persona malata viene considerata non più solo come oggetto di cura, ma come attivo protagonista del suo percorso terapeutico e riabilitativo, con la sua storia, le sue risorse e le sue capacità; la quale opera di concerto con gli operatori socio-sanitari. Inoltre, la malattia viene presa in esame oltre che nel suo aspetto “meccanico”, anche come percezione soggettiva da parte del paziente e collettiva dal punto di vista socio-culturale.

Graphic medicine: una nuova frontiera

Non solo “parole”, ma anche “immagini”: è il tema della Graphic medicine. Un modo più lento, elaborato e meglio elaborabile, di far incontrare emozione e esperienza. Quanto potrebbe esserci utile, oggi, in un clima che – spesso – usa i toni emozionali unicamente per stordire o catturare – non sempre in positivo – l’attenzione?
Una delle caratteristiche più evidenti della graphic medicineè che la narrazione che utilizza il codice verbale e iconico, o solo quest’ultimo, è capace di svolgere più compiti allo stesso tempo, tenendo sempre vivo l’interesse del lettore, fornendo eventualmente anche informazioni scientifiche, storiche e didattiche, attraverso l’esperienza diretta dell’autore. Sebbene le patografie – i racconti grafici delle patologie –siano spesso teoricamente simili ai resoconti testuali standard della malattia, i loro potenti messaggi visivi trasmettono una comprensione viscerale immediata in modi in cui il testo non riesce ad arrivare.

Per quale motivo?
Proprio per le intrinseche caratteristiche del codice iconico, che si mostra più diretto. Per avere una spiegazione più approfondita, attingiamo ancora una volta ai risultati degli studi delle neuroscienze e della psicologia cognitiva, che negli ultimi decenni ci hanno dimostrato come la visione di immagini provocherebbe a livello cerebrale una reazione neuro-fisiologica di simulazione incarnata (embodied simulation) delle azioni, delle emozioni e delle sensazioni corporee in esse raffigurate,che ci permette un’esperienza immersiva più “diretta”, rispetto la sola lettura di un testo verbale.

Ebbene, al di là di ogni determinazione storico-culturale, nelle narrazioni visive sono più “adamitiche”, per così dire, e hanno un potere esplicativo impareggiabile rispetto agli altri sistemi di significazione. E qui mi ricollego alla domanda: le immagini sono un potentissimo strumento per fare comprendere e conoscere emozioni, stati interiori, situazioni, eventi, rispetto a cui spesso le parole vengono meno.

Superare una situazione così drammatica a livello globale come quella che stiamo vivendo in questi mesi non sarà un processo semplice e immediato, sia sul piano individuale che collettivo ma, come è stato per il passato, le neuronarrazioni si pongono come un mezzo potentissimo di redenzione per un nuovo inizio

Valentina Conti

Oltre la pandemia: le neuronarrazioni

Siamo inevitabilmente alle prese – e lo saremo forse ancora di più nei prossimi mesi – con un trauma: una ferita psichica e sociale che potrebbe essere difficile rimarginare. Le storie, le neuronarrazioni, ci potranno aiutare?
Assolutamente sì. Le storie ci mostrano in continuazione qualcosa di nuovo sugli altri ma anche su noi stessi, che le si identifichi come palestre cognitive o conoscitive, rimangono oltre modo uno strumento di riflessione.

Sono proprio le storie ad attribuire un significato profondo a tutto ciò che accade, che altrimenti si ridurrebbe a una sequenza insensata e intollerabile di eventi – per dirla con Hannah Arendt. Nella dinamica divoratrice dell’entropia globale in cui sono immerse e si intrecciano le nostre esistenze, le narrazioni fungono da catalizzatori, offrendo un orientamento e una presa di distanza critica.

Superare una situazione così drammatica a livello globale come quella che stiamo vivendo in questi mesi non sarà un processo semplice e immediato, sia sul piano individuale che collettivo ma, come è stato per il passato, le neuronarrazioni si pongono come un mezzo potentissimo di redenzione per un nuovo inizio.


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