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Emanuele Ortu

Una storia ci salverà? Ragazzi e racconti in tempo di crisi

di Anna Toro

In cosa consiste il potere “magico” di una storia? L'esperto di narrazione e promozione della letteratura per l'infanzia Emanuele Ortu ci racconta dell’importanza fondamentale del racconto anche in tempo di pandemia, e del suo lavoro con i bambini e gli operatori delle comunità per minori, all’interno del progetto “Il sociale non si ferma”, portale online gratuito e multidisciplinare realizzato dal Master di Tutela diritti e protezione dei minori dell’Università di Ferrara.

Sherazade de Le mille e una notte ci ricorda come narrare una storia possa servire a controllare il mistero umano più grande: la morte. Quando si racconta e si ascolta una storia il tempo si ferma, tutto è sospeso, compresa la morte. O meglio, il nostro pensiero della morte si allontana. E’ uno spazio protetto da cui si può tornare indietro indenni. “Nel frattempo ci apre all’arte del possibile, è un rinascere ogni volta” spiega Emanuele Ortu, che racconta storie per mestiere, e si occupa di narrazione e letteratura per l’infanzia all’interno del Master di Tutela diritti e protezione dei minori dell’Università di Ferrara. E che non ha mai smesso di lavorare, anche durante il lockdown.

Dall’inizio della pandemia, infatti, i docenti e lo staff del master, coordinati dalla responsabile del corso Paola Bastianoni, hanno creato un portale gratuito intitolato "Il sociale non si ferma", dedicato al supporto degli operatori del sociale in ambito minori durante l’emergenza sanitaria Coronavirus: dagli educatori nelle comunità protette, agli insegnanti, volontari, studenti, in una rete interdisciplinare e interistituzionale che ha coinvolto – a livello rigorosamente volontario – giuristi, avvocati, legali, psicologi, pedagogisti ed esperti di tutta Italia. Circa 170 gli iscritti, per una lunga serie di appuntamenti video quotidiani, gratuiti e interattivi, nati dalla necessità di un confronto in un momento storico in cui i minori sono completamente scomparsi dal discorso politico.
Tra gli appuntamenti online (che continueranno per tutta la Fase 2) ci sono anche quelli dedicati alle storie e alla narrazione curati da Emanuele.

Nei tuoi incontri sul portale hai spesso parlato di storia come cura. Cosa significa?


L’espressione non è da intendere in senso medico, non penso infatti che le storie siano prescrivibili come se fossero dei farmaci. Ha più a che fare con l’idea di creare un’esperienza che faccia sentire nell’altro la relazione. Ci sono numerosi progetti anche in Italia – penso ad esempio a “Nati per leggere” – che mettono in evidenza come tra i bisogni di base dell’uomo, insieme a cibo e acqua e carezze, ci siano anche le storie. Questo ha a che fare, come sosteneva anche lo psicologo Bruner, con l’idea che l’uomo percepisca il mondo come un insieme di storie, un'attitudine o predisposizione propria dell’essere umano a organizzare l’esperienza in forma narrativa. L'essere umano nei momenti di difficoltà cerca il significato del suo stare al mondo nelle storie. Dal punto di vista relazionale e sociale lo facciamo per sentirci parte di una comunità, vicini e prossimi all'altro. Lo psichiatra e psicoterapeuta Gianfranco Cecchin scrive che “E’ utile ciò che una comunità arriva a credere che sia vero”. Ed ecco che le storie hanno funzione di esperienza utile a confermare quelle "verità" collettive che ci guidano e per ri-raccontarci. Ma c'è anche un movimento di trasformazione dei sistemi collettivi, ed ecco infine la storia come luogo in cui trovare nuove strade. Per tutte queste e altre motivazioni la storia ha un effetto di cura. Perché nella caoticità del bosco in cui stiamo camminando oggi le storie ci aiutano a trovare una strada.

Avviene una trasformazione in chi ascolta?


Sia per chi ascolta che per chi racconta succede che mentre fisicamente stai fermo la mente continua a costruire insieme al racconto, a creare e immaginare. Questo lato che in sé è magico – ma che fa parte di tantissime forme d’arte – permette di immergersi in quel momento di sospensione temporale in cui io posso lavorare su me stesso, posso stare bene (se la storia è bella). Da quella storia esco cambiato in base a quello che mi ha dato e che io ho voluto prendere. Pensiamo anche al meraviglioso lavoro di Gianni Rodari – di cui si sta celebrando il centenario dalla nascita – sul materiale delle storie e il potere liberatorio delle parole. Certo c’è storia e storia. Per me le storie belle sono quelle che sono esse stesse esperienza di trasformazione e riflessione, che permettono un cambio di prospettiva, di aprire nuovi sentieri. Storie in cui l’errore rima con l’errare, destrutturandone il valore giudicante. Non indicano, ma aprono strade, non organizzano, ma destabilizzano, non giudicano ma sono luoghi di autoriflessione. Aprono ad un tempo sospeso, coniugando sapientemente passato, presente e futuro. Sono portatrici di domande che toccano quegli spazi vietati, i tabù, i non detti che la letteratura per l'infanzia ha sempre affrontato coraggiosamente. E naturalmente devono essere esperienza di piacere.

Raccontare storie ai bambini e ragazzi fa parte del tuo lavoro, così come la formazione di chi con i ragazzi ci lavora: insegnanti, educatori, operatori di comunità protette. In questo periodo di quarantena hai continuato a fare entrambe le cose ma, come tutti, hai dovuto trasferire la tua attività in digitale. Come ti sei trovato?

C’è molta differenza tra formazione in presenza e formazione a distanza. Quando si utilizza ognuna delle due forme bisogna averne chiare le caratteristiche. Sia nel Master Tutela, diritti e protezioni dei minori che nella piattaforma "Il sociale non si ferma" sperimentiamo le specificità della formazione a distanza: la possibilità di raggiungere e far incontrare persone altrimenti lontane, l’idea di formazione come processo lento di sedimentazione e riflessione, e tanto altro ancora. Siamo consapevoli dell’importanza fondamentale della formazione in presenza, per cui ogni anno viene organizzata una Summer School aperta a tutti in cui si lavora in cammino, col corpo in un’unità di spazio e tempo. Nel mio specifico, cercare di evitare che la formazione digitale risultasse un traffico unidirezionale di informazioni mi ha portato a fare una serie di sperimentazioni, come trasformare i silenzi in video mentre i partecipanti erano impegnati in attività da me proposte, come spazio di autoriflessione e riappropriazione del proprio tempo formativo, la costruzione di domande riflessive a distanza a cui rispondere successivamente attraverso bacheche virtuali o negli incontri successivi. Per quanto riguarda i bambini e i ragazzi – a cui propongo in genere spazi di racconto e coinvolgimento sulle storie – la risposta che ho avuto è stata estremamente positiva, anche qui con qualche sperimentazione audace. Una sera ad esempio abbiamo connesso tre comunità di adolescenti da tre parti d’Italia, con modelli educativi differenti, per oltre un’ora di storie. Partendo dal racconto di una storia (“D'un tratto nel folto del bosco” di Amos Oz, ed. Feltrinelli) ci siamo confrontati su come gli adulti mentono ai bambini, su quando lo fanno e perché, e siamo arrivati a parlare anche della situazione politica e sociale attuale. Il tutto è stato molto partecipato.

Soprattutto con i minori penso che il lavoro in presenza, l'incontro dei corpi nel qui e ora, risulti quello da perseguire e di cui dobbiamo riappropriarci il prima possibile.

C’è differenza nel proporre storie a bambini e ragazzi che vivono una situazione particolare di vulnerabilità, ad esempio i gruppi delle comunità protette per minori?


In realtà la domanda su chi hai di fronte te la fai sempre. Quando racconti storie puoi generare semplice svago e divertimento, ma puoi anche smuovere bestie gigantesche. Parlo di grandi domande, connessioni ai propri irrisolti. Per questo certe storie le racconto solo se so che con i ragazzi c’è un adulto di riferimento (non necessariamente nella stanza). E paradossalmente questo è più semplice nelle comunità, in cui il rapporto con gli operatori è più assiduo rispetto ad esempio alle scuole. Anche per questo di base parlo prima con gli insegnanti e gli operatori, anche perché la mia idea metodologica è che del sistema fanno parte tutti, e io non sono lì semplicemente per somministrare una bevanda.

Rispetto allo specifico delle comunità, combatto ancora con una sorta di autocensura, di paura di toccare certe domande e tematiche. Come l’abbandono dei genitori (di cui la letteratura per l’infanzia in realtà abbonda). Poi però, tendenzialmente, rinsavisco. Soprattutto perché sono loro stessi, se ci si confronta senza timori e con curiosità, a gettarmi addosso storie, film, libri che hanno amato e che hanno a che fare anche con questioni che li riguardano. Semplificando, penso che si possano raccontare tutte le storie. La differenza la fa la capacità di prendersi cura di chi ascolta le storie che proponiamo. Nell’essere pronti a quello che può accadere. Per questo dobbiamo chiederci, rispetto a certe domande e tematiche, se siamo noi pronti ad affrontarle e stare insieme alle emozioni che riverberano in chi ascolta.

Dunque il rito antico di radunarsi intorno a una storia funziona anche in digitale?


In questo lavoro devi sempre fare attenzione a ogni singolo sguardo delle persone a cui stai raccontando. Devi capire se quella storia devi cambiarla, rimodularla, trovare un modo veloce per chiuderla, capire se anche a un singolo bambino qualcosa è suonato storto e prenderti un momento di cura per costruire al volo un momento di feedback su quello che sta accadendo. Certo, ora online tutto questo è molto più difficile, e qui va potenziato chi c’è in presenza: la fiducia e il ruolo dell’educatore, dell’insegnante, o del genitore. La responsabilizzazione del sistema intorno al minore non permette più di avere figure deboli, e questo lo trovo interessante. In un’attività di questo tipo, oggi più che mai siamo veramente richiamati tutti a riflettere su qual è, come sistema, il nostro progetto educativo, e siamo chiamati ancora più di prima ad essere una comunità educante.

Molti genitori con la quarantena ci si sono trovati, volenti o nolenti.


Ecco un possibile effetto positivo. Ci sono genitori che prima della pandemia non avevano mai letto un libro con il proprio figlio. Oggi lo fanno, c’è una presa d’atto che una nuova relazione con l’infanzia sia possibile, e che il tempo vita possa avere un valore diverso. Grazie alla didattica a distanza, poi, molti genitori per la prima volta hanno visto gli insegnanti all’opera e di conseguenza hanno attivato delle riflessioni più concrete su cosa vogliono per i propri figli e figlie. Siamo in un buon momento per la costruzione di nuove reti, soprattutto con le famiglie, che vogliano mettere al centro i minori.

Ci sarà un prima e un dopo il coronavirus anche nelle storie?


Siamo fatti di storie, le storie sono nutrimento, una risposta alle nostre piccole e grandi necessità e domande. Scegliamo le Storie Letterarie in risposta alla nostra Storia Personale e ci sono forti relazioni tra le scelte di produzione e di lettura e gli avvenimenti storici. Quindi immagino che anche sulle necessità di scrittura il Covid avrà delle conseguenze. Io per esempio – ma sono sempre scelte personali – nel mio lavoro vorrei ora puntare su storie che hanno a che fare con il collettivo, in cui si parla di trasformazioni ma dove non c’è un eroe eletto, m’interessa molto l’idea di redistribuzione della leadership. Così come intendo ripotenziare il discorso delle fiabe, ovvero è un momento in cui ritornare alle grandi domande. E capire se magari non saranno le grandi domande stesse a cambiare.

Foto: publicdomainpictures.net


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