Pierangelo Dacrema

«Viviamo un’economia del malessere, ma tutto andrà bene solo se nulla sarà come prima»

di Redazione

Il rapporto tra moneta, economia e benessere non è scontato. Occorre ripensarlo a fondo, come fece Keynes, per rilanciare una prospettiva di futuro che non sia la semplice ripetizione dell'identico

La Pandemia Covid -19 che si è violentemente abbattuta sull’intero pianeta ha evidenziato il limite dei modelli di organizzazione economica e sociale vigenti, mettendo in rilievo il volto dell’individualismo radicale, l’insostenibilità del liberalismo e della crescita basata sul PIL. Per cercare di indagare la radice del problema e rintracciare elementi utili per un possibile cambio di rotta, abbiamo rivolto alcune domande a Pietrangelo Dacrema, ordinario di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università della Calabria, economista e autore di numerosi articoli, saggi e del volume Economia del Malessere. Perché tutto andrà bene se nulla sarà come prima, di recente pubblicazione per le edizioni All Around.

Professor Dacrema, potrebbe spiegarci il “Perchè tutto andrà bene se nulla sarà come prima”?
Il virus che ha sconvolto l’esistenza di miliardi di persone ha influenzato solo in parte il contenuto del mio ultimo lavoro, che è anche frutto di riflessioni di lungo corso sulla necessità di trovare uno sbocco diverso – meno condizionato da moneta e finanza – ai processi del capitalismo moderno. Quarant’anni fa mi sarei trovato dalla parte di una borghesia colta intenzionata a conciliare la difesa dei propri privilegi con il miglioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori.

Oggi, conscio di quanto sarebbe anacronistico parlare di lotta di classe, credo che le categorie economicamente più deboli abbiano tutto il diritto di rivendicare con forza una distribuzione della ricchezza meno sperequata e una più efficace protezione dagli effetti delle crisi sistemiche di qualsiasi natura. Per questo ora, in un senso importante e in modo solo apparentemente paradossale, si può dire che tutto andrà bene solo se nulla sarà come prima. E ciò anche se temo che il grumo d’interessi orientati a ripristinare lo statu quo ante riesca a impedire che quanto accaduto si traduca nell’occasione tragicamente ideale per un grande esperimento di rivoluzione sociale.

Credo che le categorie economicamente più deboli abbiano tutto il diritto di rivendicare con forza una distribuzione della ricchezza meno sperequata e una più efficace protezione dagli effetti delle crisi sistemiche di qualsiasi natura. Per questo ora, in un senso importante e in modo solo apparentemente paradossale, si può dire che tutto andrà bene solo se nulla sarà come prima. E ciò anche se temo che il grumo d’interessi orientati a ripristinare lo statu quo ante riesca a impedire che quanto accaduto si traduca nell’occasione tragicamente ideale per un grande esperimento di rivoluzione sociale

Pierangelo Dacrema

Esiste una religione laica, per nulla fanatica, che impone di soffrire e reagire di fronte a manifeste ingiustizie. Spero che questo “credo” trovi nell’emergenza attuale terreno fertile per diffondersi e diventare fattore di civiltà e progresso. Il capitalismo è una macchina resistente, flessibile, poderosa. Ne ha dato prova tangibile. Privo di elementi di fascino intrinseco, ha tuttavia l’obbligo, per giustificarsi, di produrre risultati eccellenti, non solo buoni. Lo diceva J. M Keynes, suo strenuo, autorevole, difensore. Che, ne sono certo, avrebbe ferocemente criticato la sua versione attuale.

Dai sui iscritti emergono i limiti dell’economia monetaria. Cos’ è per Lei l’economia?
La moneta è un vestito troppo stretto per l’economia: a differenza del denaro (che è un concetto ontologico) la moneta è un oggetto sociale che, per quanto resistente, può essere riformato, perfino abbandonato. Pensare, volere, agire: questa è l’economia. È una bella giornata, buona per una passeggiata. L’idea di camminare non mi dispiace. Mentre mi avvio, mi viene in mente che potrei bere qualcosa. Nel momento in cui sorseggio la mia Coca Cola, cosa sto facendo? Sono un uomo che si sta dissetando o un consumatore nell’esercizio delle proprie funzioni? Certo sto compiendo un gesto economicamente rilevante. Un consumatore è diventato più prezioso di un lavoratore. Un’automobile è diventata più difficile da vendere che da fabbricare. Il messaggio è che il consumo sarebbe in ogni caso una gioia, un premio, e il lavoro una fatica sopportabile solo in vista della soddisfazione generata dal consumo.

Ma le cose non stanno sempre così. Può essere che un sacrificio sia quello di dover parcheggiare l’auto la mattina quando si va al lavoro, compito per il quale nessuno viene pagato, e ci si trovi invece a essere pagati per un lavoro che, oltre al denaro, ci procura anche una gratificazione psichica. Pensiero, volontà, azione. L’economia è un’ampia dimensione della vita, non una sua parte specifica: per questo la moneta è una linea di separazione artificiosa tra ciò che è economico e ciò che non lo è.

Esiste una religione laica, per nulla fanatica, che impone di soffrire e reagire di fronte a manifeste ingiustizie. Spero che questo “credo” trovi nell’emergenza attuale terreno fertile per diffondersi e diventare fattore di civiltà e progresso. Il capitalismo è una macchina resistente, flessibile, poderosa. Ne ha dato prova tangibile. Privo di elementi di fascino intrinseco, ha tuttavia l’obbligo, per giustificarsi, di produrre risultati eccellenti, non solo buoni. Lo diceva J. M Keynes, suo strenuo, autorevole, difensore. Che, ne sono certo, avrebbe ferocemente criticato la sua versione attuale

Pierangelo Dacrema

Dostoevskij fa affermare al principe Miškin che “La bellezza salverà il mondo”, forse alludendo alla ricomposizione della realtà in un’unità armonica e rivelatrice di un senso ultimo, al di sopra del suo stesso caos. Può a Suo avvio l’economia contribuire a raggiungere l’agognata bellezza?
La frase del principe idiota (ma buono) evoca un rapporto non capito. Che cos’è l’arte se non una parte dell’economia? Arriverei a dire che è compito naturale dell’economia aspirare all’”agognata bellezza”. Che cosa si può fare su questa terra, dopo un attimo di stupore, se non lavorare, darsi da fare? Che cosa si vuol fare se non superare lo stupore? A che cosa ambire se non all’arte? Certo, non saranno afflitti dalla fame gli uomini sensibili all’arte. Ma è una differenza di grado, non di natura, quella tra risultato economico e risultato artistico. L’artista è un uomo d’azione, poiché nell’arte, proprio come nell’economia, il pensiero è azione. Nessuna differenza sostanziale dall’economia, di cui l’arte è una parte.

Quale?
Quella eccellente, naturalmente, quella migliore, la più ispirata, tanto convincente che non le si chiede neanche di essere utile. La verità è che siamo tutti in viaggio, tutti protesi verso una meta. E’ edificante immaginare che ci si trovi in attesa di un’epoca in cui l’arte e la bellezza possano perdere la loro aura di eccezionalità. Mi viene in mente un aforisma di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo: “Nessuna operazione si compia a caso né contrariamente alle regole che costituiscono l’arte”.

Lezioni di indisciplina: “La morte del denaro” è una idea che sostiene da tempo? Pensa sia ancora attuabile?
La morte del denaro è un libro del 2003. E’ fondato su un’ipotesi suscettibile di avverarsi in un arco di tempo relativamente breve (meno di un secolo). So che, alle perplessità suscitate in alcuni, si è affiancato il giudizio di chi ha valutato la prospettiva come irrimediabilmente utopistica. Ora, si sa che se un evento – un corso di eventi – è giudicato auspicabile e conveniente sul piano sociale, dovrebbero nascere prima o poi stimoli adatti a renderlo oggetto di un’attenzione politica e dei conseguenti provvedimenti destinati a provocarlo. Può succedere allora che tutto accada all’improvviso.

Al contrario, esistono casi in cui il cambiamento avanza e matura su basi quasi impercettibili, eppure inesorabili, come fosse dettato da un destino a cui potremmo dare il nome di progresso (termine, nella fattispecie, utilizzato nel modo più neutrale possibile). Ebbene, reputo che, nell’attuale situazione socio-economica, esistano i sintomi – tendenze, forze di mercato, pulsioni individuali e collettive – della progressiva formazione di una civiltà postmonetaria in un orizzonte temporale difficile da definire ma non necessariamente millenario.

In assenza di moneta, su quali basi dovrebbero poggiare le relazioni economiche e politiche tra Stati?
Le nazioni, come gli individui, dovrebbero poter dare il meglio di sé in modo incondizionato, a vantaggio proprio e di tutti. E’ già successo che lo strumento della moneta abbia lavorato contro lo sviluppo economico, o comunque in maniera sfavorevole a un adeguato funzionamento dell’economia. È accaduto in modo clamoroso nel 1929, all’inizio della Grande depressione, e anche nel 2007-8, gli anni in cui la crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti ha cominciato ad avere gravi ripercussioni economiche sul piano mondiale. Prendiamo l’esempio attuale dei dazi, che esistono (non solo, ma anche) perché esistono le valute, che sono di per sé un attentato contro la pace commerciale. I dazi lavorano contro il teorema dei vantaggi comparati, che – come sottolineò acutamente Paul Samuelson – racchiude una delle poche verità incontrovertibili dell’economia.

Nei vantaggi economici comparati, infatti, si esprime il principio della specializzazione, che è tra le ragioni più profonde dello sviluppo economico e del progresso umano. Ne consegue che moneta, pluralità delle valute, dazi, politiche di qualsiasi tipo volte a strumentalizzare il sistema dei prezzi a protezione delle valute e dell’economia nazionali possono sortire l’effetto perverso di operare contro la crescita dell’economia e del benessere su scala planetaria.

Potrebbe “La morte del denaro” generare un nuovo afflato comunitarista che riponga al centro l’uomo invertendo la tendenza che marginalizza e impoverisce i territori, arginando i processi di spopolamento e fuga verso le grandi metropoli e contenendo le migrazioni di massa dal “sud del mondo” verso “l’opulento nord”?
Mettere al centro l’uomo dovrebbe essere l’imperativo. Mettere al centro il denaro è sbagliato come pensare che sia il sole a girare attorno alla terra. Certo, si può convivere anche con l’idea dominante di un sistema geocentrico: lo abbiamo fatto, ma era un errore. Oggi, per chi ha denaro, è molto più conveniente investire nello Stock Exchange di New York che non in Africa, dove chi investe lo fa in una prospettiva di sopraffazione o di rapina. Per questo credo che un’economia postmonetaria possa favorire uno sviluppo equilibrato, diffuso, più capillare, e contribuire davvero a mitigare tanto il processo di inurbamento quanto la distanza tra un sud troppo povero e un nord troppo ricco: più in generale, tra chi ha troppo e chi troppo poco.


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