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Francesca Antonacci

La cicala e le formiche: perché il gioco ci serve per immaginare un futuro diverso

di Marco Dotti

Quando parliamo di gioco ci concentriamo, spesso, sull’artefatto: un prodotto, un oggetto, un determinato software o sulle degenerazioni come l'azzardo. Invece, tanto nel mondo dell'educazione quanto sul lavoro, è fondamentale riflettere sulla natura stessa dell’atto di giocare

«Se vuoi essere felice e contento, lavora quando lavori e gioca quando hai tempo». Questa filastrocca era ancora in voga negli anni Ottanta, quando per insegnare l’inglese ai bambini si insisteva sulla differenza tra lavoro (work) e gioco (play). Segno di una separazione ancora netta o che, socialmente, veniva percepita come tale tra due sfere dell’agire umano.

La prima, la sfera del lavoro, era del tutto ricompresa nella categoria del dovere e l’altra, quella del gioco, interamente consegnata al piacere e al tempo libero. Oggi, però, quasi tutti i muri tra gioco e lavoro sono crollati e, dove ancora persistono, sono diventati porosi.

Per capire che cosa sta accadendo nel complesso universo del gioco abbiamo incontrato Francesca Antonacci, professore al Dipartimento di Scienze umane per la formazione dell’Università di Milano-Bicocca, dove insegna Pedagogia e metodologia del gioco. Su questo tema ha pubblicato nel 2019 un libro, Il cerchio magico edito da Franco Angeli, e curato con Maresa Bartolo la ricca edizione italiana e recentissima di un libro affascinante e importante: La cicale e le formiche. Gioco, vita e utopia (Edizioni junior, Parma 2021, pagine 220, euro 22) di Bernard Suits, uno dei massimi esperti al mondo di gioco e giochi.

Giocare significa imparare a superare ostacoli altrimenti insormontabili

Bernard Suits

Quando parliamo di gioco – spiega Suits – ci concentriamo, spesso, sull’artefatto: un prodotto, un oggetto, un determinato software. Invece è fondamentale riflettere sulla natura stessa dell’atto di giocare. Questa riflessione, infatti, ben più che giudizi etici formulati ex post pregiudica l’artefatto, lo rende buono – ovvero adatto a sviluppare più condivisione, più educazione, più spirito di cooperazione e convivenza – o cattivo.

Questo libro, scritto in forma di favola da uno dei massimi esperti di filosofia del gioco, al pari di classici come Homo ludens di Huizinga a Gioco e realtà di Donald Winnicott o A che gioco giochiamo di Edward Berne è una tappa necessaria e davvero accessibile per chiunque voglia confrontarsi seriamente con il tema. Giocare, spiega Suits, è importante. Lo è per educare, per imparare. Lo è soprattutto per vivere e per convivere. Che altro sono, infatti, le regole della convivenza se non un grande gioco a cui tutti dovremmo imparare a giocare?

In questi anni si è eroso spazio al gioco. Un fenomeno eclatante è l’azzardo…
Il gioco è come il cerchio magico descritto in tante storie e in tante forme di rituale nella nostra civiltà. Nel gioco il soggetto si scopre, scopre gli altri, capisce la realtà e trova strade inaspettate per migliorarla. Nel gioco, la persona incontra il possibile. Ma per essere tale, quel cerchio deve esser permeabile, mobile, aperto agli incontri e agli scambi.

Ai nostri giorni, non solo alcune manifeste corruzioni del fenomeno come l’azzardo di massa, ma anche molti giochi che vanno per la maggiore (pensiamo a certi videogames o a cerchi giochetti sugli smartphone) presentano invece cerchi fissi, statici, che non permettono alle persone di sviluppare fantasia e emozioni positive. In definitiva, sono “giochi senza gioco” che anziché iniziare all’esperienza dell’altro e al mondo, rinchiudono il soggetto in zone di solitudine.

Gioco e lavoro. I due ambiti, oramai, si compenetrano. È un fenomeno unicamente negativo, come molti tendono a pensare?
Nel gioco si attiva un potente meccanismo di gratificazione. Ma l’errata progettazione di molti giochi fa sì che quel meccanismo di gratificazione sia bastevole a se stesso. Il gioco, nella sua dinamica fruttuosa, anche col mondo del lavoro mantiene invece sempre aperta la porta su una sorta di mondo alternativo..

Un mondo sempre possibile che genera equilibrio rispetto al mondo reale e allo schiacciamento dell’uomo rispetto al compito che gli è assegnato. Ma se il gioco prevale diventando la dinamica per eccellenza dove spendere tutte le proprie aspettative e tutte le proprie energie, diventa un mondo alienato e a parte. Anziché equilibrio, genera allora squilibrio.

Molte dipendenze da “gioco” nascono da questo circolo vizioso.
Un circolo vizioso che compromette tanto il gioco, quanto il lavoro. Perché la dialettica tra gioco e lavoro è viva se mantiene uno spazio aperto tra i due ambiti. Se tra gioco e lavoro le maglie sono troppo strette o troppo larghe si genera, da una parte, la dipendenza da gioco o la dipendenza da lavoro la cosiddetta workhaolic.

Nel suo libro, Bernard Suits esemplifica questo dialogo tra gioco e lavoro con due immagini: la cicala che si diverte giocando e la formica che si concentra sul lavoro…
Non possiamo essere solo cicale, ma non possiamo essere solo formiche. Si innova solo giocando, anche nel lavoro. Per questo dobbiamo imparare ciò che abbiamo perduto: che cosa il gioco può fare per noi.

Che cosa può fare?
Può insegnarci che non c’è solo l’obiettivo da raggiungere o il successo. Conta il percorso, non solo la metà. Il gioco ci insegna il valore di un processo: è un fare che non si farà mai ridurre al risultato e non si farà mai misurare in termini unicamente numerici. C’è poi un altro tema, ancora più grande: il gioco è fondamentale nei nostri percorsi, individuali e collettivi per individuare un’apertura, un varco, un altrove. Detto con una parola: una speranza. Giochiamo – davvero – finché sappiamo sperare in un cambiamento, in una svolta, in un momento migliore. Ma speriamo davvero se, davvero, sappiamo giocare. Il gioco riesce a sviluppare, anche all’interno del già noto, potenzialità che non avevamo visto. Attraverso il gioco, l’uomo è capace di trovare una via d’uscita e di sperimentarla anche nelle situazioni peggiori.

Non si tratta di una fuga dalla realtà?
Questo accade nei giochi disegnati male e in quelli che isolano. La via d’uscita che l’uomo sperimenta nel gioco vero è molto pratica, mai idealistica: è verso la realtà, non fuori dalla stessa.

Per questa ragione è necessaria una sorta di ecologia del gioco…
… che lo liberi dai tanti aspetti negativi di cui abbiamo parlato e lo rimetta nella giusta posizione rispetto all’altra, necessaria, attività dell’umano: il lavoro. Detto questo, vorrei aggiungere che giocare è una responsabilità, ma anche progettare un gioco lo è. Spesso i game designer si preoccupano solo che un gioco o un videogioco siano performanti. Invece, devono essere anche carichi di senso e di valori.

Un tema fondamentale, per recuperare il senso del gioco, è quello dell’immaginazione. Dopo quella di lavoro, un’altra parola spesso associata a gioco è quella di cultura.
La cultura nasce “giocata”. La cultura è un fenomeno immaginativo e, come tale, è un fenomeno ludico: la produzione di quel di più rispetto alle cose che se si rimane aderenti alle cose non si riesce a vedere. La cultura è una produzione – e un’immaginazione – di orizzonti possibili. In questo senso gioco e cultura sono tutt’uno. Se compromettiamo il gioco slegandolo dalla cultura, compromettiamo la cultura, ma se non preserviamo la cultura facendo leva sulla carica innovatrice del gioco… finiamo inevitabilmente per compromettere il gioco. Con le conseguenze in termini di ricadute sociali, educative, civiche che ben conosciamo.


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