Vito Teti

«Per ripensare l’Europa abbiamo bisogno del Mediterraneo»

di Marco Dotti

Abbiamo vissuto la fase di un'Europa a trazione culturale ed economica franco-tedesca. Ora è il momento di pensarla in sinergia con un'Europa mediterranea: accogliente, aperta, interconnessa. Senza muri. Ma anche lontana dagli stereotipi

Per praticare accoglienza «è decisivo elaborare un concetto di identità aperto, mobile, in cui l’interrogativo prevale sulla risposta, l’essere sul fare». Lo spazio di questa elaborazione, spiega l’antropologo Vito Teti, professore all'Università della Calabria che abbiamo intervistato per il numero di Vita di ottobre, non può che essere quello del Mediterraneo. Capiamo insieme perché.

Abbiamo spesso parlato di Europa declinandola in senso "franco-tedesco": frugalità, rigore, a volte durezza. Esiste un'altro modo di mettere in gioco una cultura europea, stavolta improntata su uno sguardo mediterraneo?
La prima considerazione che mi viene da fare è che non esiste un Mediterraneo, ma tanti Mediterranei. Le differenze tra riva Nord e riva Sud del Mediterraneo sono state spesso occultate per ragioni ideologiche e politiche. E infatti sono devastanti le posizioni prese nei confronti di Paesi mediterranei della sponda Sud del Mediterraneo, non europei, trasformati, anche per soggezione agli USA, in luoghi di conflitti perenni, di guerre interminabili, di dittature feroci, che potrebbero generare un conflitto mondiale e anche atomico. Sia Fernand Braudel che Predrag Matvejevic’ notavano, con argomenti diversi, quanto fosse difficile stabilire dei confini geografici e antropologici. Certo nemmeno dal punto di vista geografico il Mediterraneo può essere separato, con confini netti, dall’Europa. Le scelte dure, economiciste, efficientiste sono dovute essenzialmente agli interessi economici dell’Europa continentale, “franco-tedesca”, che ha avuto spesso un atteggiamento coloniale nei confronti dei Paesi mediterranei, considerati quasi luoghi ad essa esterni ed estranei. Basti pensare a come è stata trattata e umiliata quelle Grecia, il cui pensiero ispira e alimenta ancora la nostra civiltà. La marginalizzazione del Mediterraneo è stata una invenzione abbastanza recente. Si pensi, infatti, a quello che la Grecia nell’Ottocento aveva rappresentato per gli intellettuali europei, pronti a morire e a combattere per la sua libertà, e basti pensare ai protagonisti inglesi, tedeschi, francesi del Grand Tour che venivano al Sud per trovare resti, reperti, sopravvivenze di un'antica civiltà di cui si sentivano eredi e a cui facevano riferimento. La stessa filosofia tedesca si riconosceva come erede della filosofia greca e magno-greca.

La domanda che lei opportunamente pone in questo caso mi pare colga il problema di quanto le immagini e le rappresentazioni del Mediterraneo non giochino anche un ruolo decisivo per l’affermarsi di questa Europa dura e miope e di come gli stessi abitanti del Mediterraneo siano in qualche modo vittime, ma anche complici, a volte responsabili nell’alimentare immagini che non corrispondono alla realtà. La declinazione in senso franco-tedesco dell’Europa è avvenuta soprattutto attraverso una sorta di cancellazione e rimozione del Mediterraneo. Un atteggiamento di superiorità che ricorda quello dell’Italia Settentrionale rispetto al Sud Italia. E se ci fosse spazio, sarebbe istruttivo ripensare quanto sia stato influente il pensiero dei commercianti, dei banchieri e degli uomini di affare dei Paesi dell’Europa del Nord per creare, in epoca moderna, l’immagine dei meridionali sporchi, apatici, poco inclini a una presunta modernità. E, del resto, la stessa antropologia positivista italiana, dalle tinte razziste (si pensi a Giuseppe Sergi, Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo), animatamente e fondatamente contrastata dai grandi meridionalisti (Colajanni, Nitti, Salvemini, Gramsci) ha costruito la distinzione, anche razziali, tra Arii o Celti e Latini o Mediterranei: i primi intraprendenti, bene organizzati, dinamici, moderni, mentre i secondi si presentavano come “sudici”, superstiziosi, criminali. L’invenzione di un’alterità interna che ancora oggi agisce in tanti abitanti e in molte élite del Nord, sempre pronti a tutelare i loro interessi. Negli ultimi decenni poi gli immigrati, mediterranei della riva Sud, del Medioriente, africani, asiatici hanno preso, in parte, il posto degli abitanti del Sud e dei Paesi mediterranei come Italia, Grecia, Spagna. E su questa operazione identitaria razzista si è giocata prima la fortuna di una Lega Padana, poi quella di una Lega nazionale, italiana, alla costruzione delle quali ha partecipato sempre Matteo Salvini, prima giovanissimo seguace di Bossi, poi abile fondatore del Papete nazionale, che è riuscito a mobilitare quei meridionali, prima denigrati, insultati, maledetti, in atteggiamenti antiimmigrati, con il protesto della difesa dei loro interessi (un argomento sensibile in periodo di crisi, di perdita di posti di lavoro, di impoverimento dei ceti popolari e medi di tutta Italia).

Negli uomini dei Paesi del Mediterraneo i vizi che le perdettero e le virtù che li portarono in alto sono rimasti prevalenti in ogni individuo; da individuo ad individuo e da nazione a nazione difetti e virtù formano quasi una parentela che in tutto il millenario rimescolio della loro storia è rimasta egualmente viva in tutti, come in una famiglia dove si possono osservare i diversi caratteri come allignano dall’uno all’altro

Corrado Alvaro, Viaggio in Turchia

Lei ha menzionato Predrag Matvejevic’, l’autore di uno dei più poetici e insieme etnografici libri sul Mediterraneo… Possiamo soffermarci su di lui?
Matvejevic’ ricordava anni addietro che l’Unione europea si è compiuta senza tener conto del Mediterraneo: un’Europa separata dalla «culla dell’Europa». Le istituzioni europee sono quasi tutte collocate nell’Europa continentale (Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo; anche la Banca europea si trova a Francoforte). I parametri con i quali al Nord si osservano il presente e l’avvenire del Mediterraneo non concordano quasi mai con quelli del Sud. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono prese al di fuori di esso e tutto questo ha generato frustrazioni, delusioni, fantasmi, ma anche mitologie e retoriche. Da un lato, infatti, il Mediterraneo è stato considerato come uno luogo altro, popolato da gente apatica, amante del dolce far niente, incapace di “modernità”, dall’altro è stato visto come luogo esotico, colorato, adatto alle vacanze dei ricchi, mitizzato in maniera edulcorata, grazie a una sorta di “mediterraneismo” (come ricorda Francesco Maria Tedesco) una sorta di versione dell’orientalismo di cui ha parlato Said.

La patria dei miti ha sofferto di mitologie che esso stesso ha generato o che altri hanno alimentato. Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, senza riuscire a diventare mai un progetto. Scrive sempre Matvjevic: «La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non si identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi». La rivendicazione d’identità ha un carattere estremamente vago, dissimula più di quanto non chiarisca. Il pensiero dell’«essere» è un pensiero dell’identificazione. Occorre uscire anche da questa trappola identitaria per poter ribaltare, almeno nelle narrazioni e nell’immaginario, la concezione di un’Europa che potrebbe fare a meno del Mediterraneo e che essa è destinata a diventare una piccola, irrilevante, frammentata potenza mondiale senza l’apporto ideale, valoriale, economico del Sud e del Mediterraneo.

Quattro e cinquemila anni di rapporti, di mescolamenti, di guerre, hanno formato nel mediterraneo un panorama di regioni più che di nazioni, e l’uomo è chiaro, e si riconoscono i pensieri e le reazioni d’ognuno come in un vecchio libro

Corrado Alvaro, Viaggio in Turchia

DI quale cultura dell'accoglienza si può fare portatrice questa "Europa mediterranea"?
Sono cresciuto, negli anni Cinquanta, in un paese dove espressioni e inviti come “Entrate”, “Accomodate”, “Favorite”, rivolti a chi veniva a trovarti a casa o, semplicemente, si trovava a passare, facevano parte del vissuto e della cultura delle persone. Tuttavia, per non mitizzare un buon tempo antico, non bisogna dimenticare asprezze, conflitti, rivalità, odi che segnavano la vita delle persone. Bisogna legare certi comportamenti alla dimensione produttiva, sociale, concreta delle comunità tradizionali (al Sud e al Nord).

La sua domanda mi pare ponga il problema di diverse pratiche dell’accoglienza. L’ospitalità e l’accoglienza appartengono, certo, alla storia e alla cultura ei calabresi, dei popoli del Mediterraneo. Fanno parte delle pratiche religiose e culturali antiche, della tradizione greco-romana, e poi greco-bizantina. del cristianesimo. L’ospite, fin dall’antichità, nell’universo mediterraneo (ma anche in altre culture) è sacro, va accolto, rifocillato, curato. Quando il viaggiatore, ai tempi del Grand Tour, domandava ospitalità – sia presso le famiglie aristocratiche e borghesi (a cui veniva segnalato da qualche parente o conoscente residente a Napoli) sia, in maniera occasionale, presso la povera gente – era ritenuto persona sacra, da accogliere, rispettare, proteggere. In assenza di una diffusa concezione sacrale dell'ospitalità e di una cultura dell'accoglienza, in pochi avrebbero potuto portare a termine il loro viaggio in una terra lontana, difficile da raggiungere e da percorrere.

Accoglienza, ospitalità intese come dono e reciprocità, non in termini meramente formali… Nella società tradizionale calabrese veniva praticata una sorta di «religione dell'ospitalità», che gli stessi viaggiatori (Swinburne, De Custine, Lenormant, Gissing, Douglas) facevano risalire, con buone argomentazioni, alla civiltà classica. Il Cristo folklorico, il Cristo dei Vangeli popolari, veniva accolto e fondava il senso e la necessità dell’accoglienza al punto di condannare chi si rifiutava di accoglierlo o la faceva in maniera non convinta. Nell'universo folklorico tradizionale l'ospite era figura sacra, «vicaria» di Cristo, dei santi, dei defunti e come tale andava accolto, nutrito, dissetato. Il culto dell'ospitalità è, talora, il contrappunto di forme di ostilità presenti in un mondo caratterizzato dalla precarietà e limitatezza dei beni, e dove era necessario sapersi difendere da nemici reali, fantastici, inventati, da invasori e da forestieri che si presentavano in maniera ostile. Per capire la pratica dell’ospitalità, non bisogna dimenticare la vicinanza e la solidarietà messe in atto nella circostanza del dono e dell’offerta. Quando si faceva il pane veniva mandato il panetto ai poveri; anche del maiale si davano le porzioni a parenti, compari e vicini, che poi ricambiavano. Lo scambio del lievito; la carità ai poveri; il banchetto di S. Giuseppe; il cibo offerto ai “mascherati”: la reciprocità del dono non cancella la bellezza della vicinanza che si stabiliva nei momenti di bisogno. La Sicilia e la Calabria (penso a quanto avvenuto a Lampedusa e Riace) hanno scritto pagine splendide di accoglienza e mostrato come sarebbe possibile affrontare grandi problemi che l’Europa ha soltanto rimosso o risolto, anche in questo caso, con una certa concretezza interessata, a volte cinica, e non con convinzione e partecipazione. I valori dell’ospitalità non possono essere, tuttavia, assunti, assolutizzati, come una sorta di carattere naturale dei calabresi. La «persuasione» viene troppe volte sommersa dalla «rettorica» (per dirla con Carlo Michelstaedter).

Nella terra dei grandi contrasti, una sottile linea d’ombra, di confine, separa la convinzione dall’enfasi. L’ospitalità non può assumere i connotati della spettacolarizzazione. Diceva Vincenzo Squillacioti, studioso e “anima” di Badolato, direttore de “La Radice”, che osserva e vive, con speranza, l’arrivo dei Curdi: «Ferma restando l’ospitalità dei badolatesi, certe iniziative in loro favore si sono tradotte in un grande bluff. L’ospitalità è stata per alcuni anche interessata». Accoglienza, ospitalità, filoxenia, evocate spesso senza alcun riferimento alla realtà, spesso mitizzate, usate come slogan per salvarsi l’anima vanno rese concrete, attualizzate, riconosciute anche per rendere merito a chi le pratica in silenzio, quotidianamente, senza ostentare e proclamare.

Pensa che quanto abbiamo detto si possa collegare a una specificità dei luoghi (piccoli vs. megalopoli) e a uno specifico dei luoghi del Mediterraneo e del Sud? Penso, appunto, che la «persuasione» contrasti la «rettorica». Che bisogni recuperare la tradizione religiosa, sacra, convinta dell’ospitalità mettendo da parte anche una tradizione di conflitti e ostilità che pure erano presenti in passato in un mare, che era universo di incontri, scambi, commerci, mobilità, ma anche di guerre feroci. Restando sul piano delle immagini e delle rappresentazione, è decisivo elaborare un concetto di identità aperto, mobile, in cui l’interrogativo prevale sulla risposta, l’essere sul fare. Uscire dagli stereotipi significa ribaltare immagini consolidate consolatorie, ribaltare sguardi edulcorati, affermare un’identità del fare, rivendicare, con convinzione, un posto di centralità e di essenzialità che gli compete. Significa riconoscere i vizi e affermare le virtù, come ricordava Alvaro, ma anche fare capire all’Europa franco-tedesca che non è possibile costruire un’Europa unita e moderna dimenticando la sua culla e, soprattutto, che non è possibile ridurre il Mediterraneo a luogo di conflitti, di contrasti e a un immenso cimitero. Il Mediterraneo potrà contrastare e vincere la visione economicistica dell’Europa franco-tedesca se riuscirà a declinare e ad affermare termini come bellezza, accoglienza, solidarietà, se farà capire che è la culla della civiltà europea e non vuole diventare una bara, ma un luogo di vita e di vitalità, senza della quale l’intera Europa rischia la fine o la frammentazione in piccole nazioni irrilevanti nel mondo, dove si affermano sempre più potenze economiche, ma anche ideologiche, che ridurranno a periferie tutti i Paesi europei, non solo quelli mediterranei. Ricordava Alvaro nel suo Viaggio in Turchia, che conserva tratti di attualità, che nel mediterraneo non esiste un palmo di costa è senza storia e che «ogni uomo ha per l’altro uomo la curiosità del vicino, e dietro ognuno involontaria l’eco degli incontri e delle rivalità e delle guerre, che a turno ognuno di questi popoli ebbe un’egemonia e una discendenza». Nello stesso tempo, oltre a segnalare rivalità e guerre, recuperava la bellezza dell’accoglienza: «Quella solidarietà in cui non esistono sottintesi, era una bellissima cosa, e significava tutti i rapporti e le relazioni del Mediterraneo, dove basta essere della stessa lingua per avere un legame».

Potremmo parlare a lungo di un mare che è bellezza, ricchezza, paesaggio di città bellissime, di piccoli incantevoli villaggi lungo le coste, dove ancora, nonostante un turismo spesso di evasione e di invasione, nonostante un’ideologia turistica che ha trasformato anche un universo popolare, povero, ma dignitoso, le popolazioni continuano a parlare di fatica e a praticare solidarietà. E però – nel periodo delle grandi migrazioni, della pandemia, delle crisi climatiche – il Mediterraneo deve recuperare anche la sua essenza, quella di essere universo di terra e di mare, terra tra due mari. A dispetto di tante astrazioni e tentativi di inventare un Mediterraneo da contorni precisi, dalla storia compatta, dalla geografia unitaria, pur essendo tante le somiglianze, dovute alla geografia, alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine, sono tante anche le differenze. L'attenzione è stata rivolta soprattutto al mare, ai mari, ai miti, marini, alla Sirene, ma si è trascurato il fatto che Mediterraneus (è sempre Matvejevic’ notarlo) indica uno spazio sul continente, in opposizione al termine maritmus. Col sostantivo mediterraneum si indicava l'interno dei vari territori. Di Ulisse, eroe dai mille volti, del ritorno e del non ritorno, della nostalgia della patria e dell'altrove, è stato uomo di mare e guerriero, ma anche pastore e contadino. Il Mediterraneo dall’antichità ad oggi è stato luogo di uomini delle terre che si affacciano sul mare. Braudel comincia la descrizione dell’ambiente, dei paesaggi, delle produzioni e delle culture del Mediterraneo nell’età di Filippo II, proprio partendo dall’interno. «Innanzitutto le Montagne», ovunque presenti intorno al mare, poi gli altopiani e le pianure fino a giungere alle coste e al mare. La montagna ha una primogenitura geografica, ma anche storica, perché la vita montanara sembra sia stata la prima vita del Mediterraneo. Tra gli innumerevoli vantaggi la montagna ha anche quello di offrire risorse diversissime, dagli olivi, gli aranci e i gelsi dei bassi pendii, agli alberi da frutto, agli ortaggi delle colline alle foreste e ai prodotti del sottobosco delle zone più alte. Alle colture si sono aggiunte i guadagni derivanti dall’allevamento, dalla pastorizia, dalla caccia. Non solo i paesi dell'interno, i paesi arroccati, i paesi presepe, ma anche le città di mare, le coste, le colline sono vissute grazie a pluralità di produzioni, di colture e di scambi. Riproporre, riguadagnare, ripensare un’etimologia antica e una storia interna e profonda, non ha la pretesa di contrastare soltanto una visione parziale che tende ad identificare Mediterraneo con mare, sole, spiagge, frutto di una logica turistico-vacanziera di maniera, con proclami pubblicitari di basso profilo. C’è una ragione più fondata, motivata, oserei dire politica, in questo richiamo all’etimologia, alla geografia e alla storia ed è che quel Mediterraneo, il Mediterraneo dell’interno è a rischio di estinzione.

Il fenomeno è noto: riguarda tutte le aree interne dell’Italia e di altri paesi del Mediterraneo. Abbiamo visto come l’abbandono dei paesi dell’interno – è una costante della storia del Mezzogiorno fin dal Medioevo, bene documentabile in epoca moderna e contemporanea. Oggi il fenomeno assume dimensioni più vistose e diverse dal passato. E non si tratta tanto di guardare ai numerosi paesi e borghi abbandonati nel corso del secolo appena trascorso, spesso in anni a noi recenti – soprattutto a partire dagli anni Cinquanta a causa delle ripetute alluvioni e degli spostamenti lungo le coste o fuori dalla regione, con il secondo grande esodo – ma di osservare e considerare un processo in atto, lo svuotamento progressivo di interi paesi, il rischio di cancellazione di decine di comunità. Il paese lasciato, quello della rabbia e del sogno, della fuga e del ritorno è vuoto. Giorno dopo giorno nei paesi dell’interno vengono chiuse scuole, uffici postali, presidi delle forze dell’ordine, per non dire della chiusura annunciata di molti ospedali. E i centri non del tutto abbandonati hanno al loro interno zone, vie, case vuote, deserte, in rovina. Lo svuotamento coincide paradossalmente con eccesso di cementificazione, per costruzioni pubbliche e private troppo spesso alzate al cielo e lasciate incompiute, aperte, sventrate.

La crisi, la fine, la dispersione dei paesi arroccati, dei “paesi presepi” dove per secoli si sono svolte le vicende delle popolazioni ha tante cause, a cominciare dall’emigrazione e dallo spostamento a volte necessario, a seguito di catastrofi, terremoti, alluvioni, a volte pretestuoso, interessato. Tuttavia, sono state le scelte dei gruppi dirigenti del periodo postunitario, del fascismo, del dopoguerra, degli ultimi decenni a a provocare una vera e propria desertificazione. Non bisogna tacere della responsabilità degli abitanti. Fiaccati dalle partenze, asserviti dall’assistenza, privati di forme di economie tradizionali, diventano sempre più opachi, rinunciatari, rassegnati. Da soggetti di attività diventano soggetti assistiti che delegano ad altri. La delega a politici nazionali e locali incapaci di progettare, di impegnarsi in opere che vadano in controtendenza. E più i paesi si svuotavano più gli abitanti hanno accentuato i loro vizi, la loro litigiosità, la loro conflittualità. Se in passato la Calabria si è presentata, come ricorda con una bella immagine Predrag Matvejevic, “un’isola senza mare”, oggi bisogna evitare il rischio che resti un’isola senza un retroterra con cui comunicare e dialogare. E infatti, se in passato le zone interne sono state lontane dal mare, oggi sono i centri sorti lungo le coste a presentarsi come distanti e separati da quei luoghi dove per secoli si è svolta la storia delle popolazioni, dove si è formata nel tempo la loro cultura e mentalità. Chi viaggia lungo le vie costiere della regione incontra aggregazioni di case indefinite e incompiute che rappresentano, per molti versi, l’estensione culturale e mentale dei paesi dell'interno, che diventano sempre più “paesi morti”. Molti nuovi centri costieri, frutto di colate di cemento che hanno distrutto spiagge e paesaggi, le nuove abitazioni, edificate talvolta come palafitte da moderni selvaggi, nascondono la vista del mare e rendono, diversamente dal passato, precario e incerto il rapporto dell’uomo con un mare apparentemente guadagnato. Le marine con le abitazioni nuove, senza intonaco, con i pilastri nudi di cemento, sono il luogo esemplare del non finito dei nostri giorni, delle rovine di una particolare modernità. I paesi della costa sembrano tante periferie di una città che non esiste. E quelli dell'interno, sempre più spopolati e tra loro isolati, si guardano da lontano e non convergono mai verso un centro, hanno tante linee di fuga che non trovano un punto d’incontro. I paesi hanno tutti una seconda vita altrove: nel passato, nell’interno, nelle Americhe, lungo le coste, altrove.

I luoghi vengono sostituiti di tanti nonluoghi…
Se un tempo Franco Costabile, ne Il canto dei nuovi emigrati, almeno riusciva ad esprimere la rabbia e il dolore degli emigrati che fuggivano dai loro paesi, noi oggi non riusciamo ad elevare un forte urlo per l’abbandono definitivo e completo dei paesi. Sono stati in pochi ad andare in controtendenza e un intero universo cedeva e si sfaldava. Spesso nell’indifferenza generale, nel silenzio più assoluto. Oggi qualcosa sta cambiando, non solo per la pandemia, ma per un nuovo modo di guardare i luoghi, per la scelta di molti che vogliono “restare” (in maniera mobile, nuova) di creare economie e comunità nuove, ponendo l’esigenza di ripartire dai margini, di ribaltare e lo sguardo, di non essere subalternità a logiche moderniste e urbano centriche, di guadare il Sud dal Sud (come suggeriva il più incisivo Franco Cassano), di osservare il Nord dal Sud, l’esterno dall’interno, i luoghi lungo le coste e le pianure dalla montagna, come aveva proposto Olindo Malagodi, all’indomani del terremoto del 1905.

Occuparsi dei paesi dell’interno veniva considerata operazione passatista, nostalgica, archeologica, lamentosa. E invece è necessario e doveroso invertire questa impostazione, questa visione che ubbidisce a modelli di sviluppo esterni, omologanti ed esclusivi. Mettere in discussione rimozioni e atteggiamenti che oscillano tra un elogio edulcorato del passato, una generica esaltazione dell’identità, e cancellazione di storie, di paesi e di uomini, tra retorica localistica e retorica globalista. Non si invoca la restaurazione di un mondo perduto, di un Eden smarrito, non si vuole portare in vita ciò che è morto per sempre, si vuole affermare, oltre che il diritto alla memoria, un diverso modello di sviluppo e di rinascita. Non viene proposta una chiusura localistica, ma un diverso riconoscimento dei luoghi. Non è in gioco la lettura e l’interpretazione del passato, ma il destino degli uomini di oggi. Le aree interne collegate alle pianure e alle marine, i paesi ancora abitati (sia pure molto meno che in passato) da collegare con strade percorribili, con centri storici da curare e dove fare sorgere scuole, musei, biblioteche, ospedali, centri sociali, i tanti siti archeologici, le chiese, le torri, le bellezze non ridotte a merce ma ad anima delle persone, il meltng polt alimentare, nuove pratiche di accoglienza di turasti, forestieri, tornanti, immigrati, la tutela di acque, boschi, terre, fiumi: sono queste le peculiarità che possono collocare la Calabria, il Mediterraneo, al centro di mondi, all’avanguardia per cercare di contrastare le inquietanti trasformazioni climatiche. L’Ambiente, nel senso ampio del termine, è quello che può fare del Mediterraneo l’universo che salva l’Europa.

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