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François Jullien

Intercultura, la parola da ritrovare

di Marco Dotti

«Per aprire un percorso verso l’altro dobbiamo lavorare sull’idea di un ponte tra identità e culture. La cultura non si constata ma si costruisce a partire dall’incontro». Dialogo con il filosofo e sinologo dell'università di Parigi VII

«Qual è lo specifico di ciò che chiamiamo cultura? Mutare, cambiare, incontrarsi, accogliere». Collocarsi in uno spazio intermedio tra identità e alterità. Sinologo e filosofo tra i più noti, François Jullien è titolare della cattedra sull’alterità della Fondation Maison des sciences de l’homme di Parigi. Negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata sulla nozione di intercultura come via di accesso privilegiata all’alterità. Intercultura che Jullien invita a guardare partendo dalla nozione di “scarto”, anziché da quella di “differenza”. Capiamo perché.

La nozione di intercultura è stata centrale per molti anni, poi si è eclissata. Oggi ritorna accompagnata da una necessità di ridefinizione. Che cosa intendiamo, dunque, quando parliamo di intercultura e perché è così importante questa parola?
Viviamo in un mondo di diversità e differenze. Le culture viaggiano al pari delle persone. Questa mobilità è una ricchezza e, al tempo stesso, è una fragilità. Affinché, anziché ridursi a incrociarsi o, peggio, a omologarsi, le culture si incontrino davvero occorre prestare attenzione. Prima di tutto prestiamo attenzione al termine di cui parliamo: il suo composto ci porta spesso a soffermarsi su “cultura”, tralasciando l’ “inter”. Eppure, se vogliamo che l’intercultura assuma un valore etico-politico e civile, non riducendosi a un cliché o, peggio, a nascondere pratiche di omologazione, è proprio su quel prefisso che dobbiamo lavorare. Spesso quando parliamo di intercultura la colleghiamo al tema delle differenze culturali. Ma così facendo sbagliamo prospettiva.

Intende dire che non esistono differenze culturali?
Intendo criticare una certa accezione di intercultura. Accezione che dobbiamo risolutamente abbandonare e che parte da questo assunto: c’è una cultura primaria (la nostra), da questa cultura partiamo per inventariare, classificare, e integrare altre culture. Questa logica, però, nega alla base ciò che l’intercultura vorrebbe essere: scoperta e incontro, non classificazione o “integrazione” dell’alterità. Per questa ragione io critico il concetto di “differenza”. Lo critico perché è un concetto identitario, che postula un’identità statica al centro e tutto attorno tante differenze che posso, al massimo, interpretare o comparare. Dobbiamo uscire tanto dall’universalismo astratto, quanto da relativismo pigro che sono, in varie accezioni, implicati da questa idea di intercultura. Non esiste, infatti, alcuna ragione universale da porre alla base o a fondamento dell’incontro. Esiste l’incontro, esiste il “tra”, esiste “l’inter” tra culture.

Se abbandoniamo il concetto di differenza, con che cosa lo sostituiamo?
Con la nozione di “scarto” e di “tra”, in francese “entre”. Il “tra” è precisamente il ponte che unisce le culture. Ma le unisce non in nome di qualcosa che è comune, bensì proprio di ciò che le distanzia.
Le unisce in ragione dello scarto che si produce proprio dal movimento che mi porta a incontrare l’altro. Lo scarto fra due culture fa apparire le stesse culture come altrettanti movimenti fecondi. Lo scarto è un’apertura. Apre uno spazio e, in quello spazio, io posso riflettere su di me, riflettendo sull’altro. In sintesi: se l’intercultura come spesso è stata pensata porta ad arrogarsi una posizione dall’alto che riorganizza attorno a sé, gerarchicamente, le differenze, l’intercultura ripensata attraverso la nozione di scarto non richiede di postulare nient’altro che una messa in tensione tra culture. Mettere due o più culture in tensione fra loro significa aprire uno spazio di riflessività.
Questo spazio di riflessività è un accesso a quello che chiamo l’impensato.

In che senso l’intercultura è un accesso all’impensato? Perché è così determinante questo passaggio?
Lo scarto tra culture produce un’apertura e, al tempo stesso, una rivelazione. Questa apertura verso l’altro è una rivelazione nei confronti di se stessi. In parole semplici: mi comprendo, mi capisco solo grazie al confronto con un “fuori” rispetto a me stesso. Questo è l’impensato e, se vogliamo, l’imprevisto di ogni incontro: ci spinge a capire che non esiste alcun uomo universale, nessuna astrazione che possiamo chiamare “uomo”. C’è il concreto dell’incontro e in questo incontro si definisce ciò che chiamiamo “uomo”. “Uomo” è ciò che si è messo alla prova, avventurandosi in un terreno impensato. La diversità delle culture è da sempre animata da questo dispiegamento di momenti, tempi e spazi impensati.

Dove trovare il minimo comune denominatore tra culture?
Proprio in questo spazio che si apre quando le culture si confrontano e percepiscono la loro alterità. Allora avviene qualcosa, ma perché accada bisogna abbandonare come abbiamo detto ogni presunzione. L’intercultura, intesa in senso nuovo, è un modo di far lavorare questo incontro, di generare questa tensione. Di distanziare, anziché omologare. In un mondo che tende sempre più all’omologazione linguistica, culturale e ideale è un processo necessario. Altrimenti “intercultura” diventa solo l’ennesimo slogan.

Tutto è vicino, ogni cultura è assimilabile, ogni umano è prossimo. Questo è il discorso che ricorre. Lei pone, al contrario, l’accento su un’etica interculturale della distanza?
Credo che la distanza o lo scarto tra culture siano necessari proprio per lavorare a qualcosa di comune. Ma, attenzione, il comune non è il simile. Il simile è ciò che soggioghiamo e assimiliamo. Il comune è ciò che distanziamo da noi, per comprenderlo e accoglierlo nella sua specificità e nella sua libertà. Abbiamo parlato con troppa leggerezza, in questi anni, di scontro di civiltà o di dialogo tra culture. Ma anche il discorso sul “dialogo” partiva dai pregiudizi che abbiamo analizzato. Se vogliamo davvero incontrarci, dobbiamo distanziarci. Dobbiamo dispiegare il “tra”, lo spazio tra culture, se vogliamo far emergere l’altro. Solo quel “tra” (l’inter-culturale) permette davvero di dialogare e innescare scambi con l’altro. Un altro considerato come compagno di viaggio in una relazione comune. Per usare un’espressione a effetto, limitandoci al nostro essere francesi o italiani, direi: dovremmo uscire dall’Europa, per poi farvi ritorno.

Un’Europa interculturale, ma senza radici?
Se pensiamo alle radici come a qualcosa di statico, pensiamo inevitabilmente a qualcosa di morto. L’Europa, al contrario, ha molto da capire e molto da insegnare se abbandona questa idea di “monocultura” per aprirsi a un’interculturalità di confronti e a una pluralità di lingue e di sguardi. Soprattutto ora. L’identità non è una radice morta. L’identità è movimento, confronto, apertura. L’idea di Europa che ancora consideriamo è stata concepita alla fine della seconda guerra mondiale: l’Europa della pace, l’Europa della cooperazione economica. Ma questa Europa è senza dubbio esaurita. Serve un’Europa delle alterità, dell’intercultura. Direi: un’Europa dello scarto e del “tra”. Non dobbiamo quindi brandire l’Europa come uno slogan o una panacea, ma pensare alle risorse che possono essere utilizzate per ravvivare la necessità di avere quello spazio di accoglienza, di confronto e di pensiero che chiamiamo “Europa”.

Un’Europa dell’alterità e non dell’identità, dunque?
La questione non è quella dell’identità europea, ma delle risorse europee. Dobbiamo ripensare il dialogo tra culture in termini di risorse, anziché di valori. I valori si escludono, le risorse no. Questo è il dibattito che dobbiamo aprire oggi per riattivare l’Europa: non cosa definisce l’Europa ( il Cristianesimo o l’Illuminismo? La ragione o la fede?) ma cosa “fa” l’Europa. L’Europa come spazio di intercultura. Come luogo ideale di incontro. La parola “ideale”, per esempio, si trova in tutte le lingue europee e disegna una geografia teorica dell’Europa stessa. Ma chi ha detto che questa risorsa di idealità si è prosciugata e non può più sostenere una storia comune? Oppure pensiamo a un tema davvero interculturale come la diversità delle lingue. Come possiamo parlare di culture se, poi, azzeriamo il proprio di ogni cultura, ovvero la sua lingua?

In Europa la pluralità delle lingue è una risorsa che, letteralmente fa l’Europa. Non sono sciovinista e non difendo una lingua sulle altre, ma voglio rimarcare il valore anche etico e filosofico della traduzione, che, come sappiamo, è la “lingua d’Europa”, in opposizione alla lingua uniformante della globalizzazione, il globish o global english.

L’interculturale come via d’uscita dalla crisi?
La crisi ha aperto lo spazio per ciò che chiamo «vera vita». Una vita non più consegnata alla staticità, ma al movimento. Il distanziamento sociale e il lockdown hanno modificato i percorsi di vita sia a livello individuale che collettivo. Sul piano individuale, molti hanno sentito il bisogno di cambiare vita, di riconsiderare vecchi percorsi e attivare nuovi progetti. Si è aperto uno scarto tra il prima e il dopo: uno scarto che ci permetterà di accogliere l’inaudito, l’imprevisto, aprendoci finalmente all’alterità. Sul piano collettivo i meccanismi all’opera sono gli stessi. Dobbiamo aprire spazi, non occuparli. Dobbiamo innescare processi, non bloccarli. La sfida dell’intercultura è tutta qua. Non è una sfida da poco.


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