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Milano-Torino, impact city a confronto

di Lorenzo Maria Alvaro

Una panoramica di due modelli differenti nella gestione delle risorse e nella misurazione dell'impatto sociale sul territorio. Il capoluogo lombardo con il welfare ambrosiano e il capoluogo piemontese con Torino Social Impact

Quella che era la rivoluzione silenziosa dell'impatto sociale, lontano dalla cassa di risonanza dei media mainstream, sta sempre più conquistando soggeti coinvolti e risorse impegnate. Tra gli attori ci sono anche i comuni. In particolare due: Milano e Torino.
Due veri e propri modelli nella misurazione dell'impatto sociale sul territorio.

Il capoluogo lombardo è la città italiana con la spesa sociale pro capire più alta in Italia: 239 euro. Risorse che costituiscono il basamento su cui si poggia il modello del welfare ambrosiano, che oggi però cambia strada puntando sull’innovazione e sul modello pay for result. Una svolta resa possibile da strumenti innovativi che consentono la condivisione dei rischi imprenditoriali fra non profit e pubblica amministrazione


Milano è la prima per distacco fra le grandi città italiane con una spesa comunale sociale annuale pro capite di 239 euro, come rileva l’Istat. Un Terzo settore, quello meneghino, iscritto nello stesso dna della città, che della tradizione inclusiva e del modello Ambrosiano al welfare ha sempre fatto una base identitaria. I dati parlano di 232 milioni dedicati al sociale nel 2017: 168,2 milioni comunali a cui si aggiungono 63,7 milioni di provenienza statale vincolati al contrasto di povertà e immigrazione.

Gli ultimi anni hanno visto un grande fermento con la nascita di innumerevoli startup e hub per l’innovazione sociale. Un ambito che «abbiamo scelto di promuovere», spiega Cristina Tajani, assessore alle Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane del Comune, «perché per noi l’innovazione sociale è uno degli aspetti fondamentali della Smart City. Una città intelligente deve sfruttare l’innovazione per lo sviluppo di nuovi metodi di risoluzione di problemi socialmente rilevanti, per generare lavoro, crescita economica e sociale soprattutto nei quartieri periferici della città».

Nello specifico, «negli ultimi anni hanno preso forma, grazie al sostegno del Comune, numerose iniziative lungo uno spettro d’azione ampio e variegato. Alcune le abbiamo fortemente volute altre sono sorte spontaneamente». Milano insomma sta traghettando l’ingaggio con le realtà sociali in un nuovo paradigma. E il futuro risponde a tanti nomi: design for policy, pay by result, capacity building e impact finance. «Tutti strumenti che rendono necessario rafforzare la capacità del nostro ente di misurare l’impatto delle politiche poste in essere in modo da diventare soggetti interessanti per la nuova finanza che punta ad investire su progetti caratterizzati non solo da un rendimento di tipo economico ma anche da nuove forme di accountability», sottolinea Tajani. Che aggiunge: «Mi riferisco ad alcune sperimentazioni che hanno ancora più valore per l’essere proposte da un laboratorio come quello che è diventata la città di Milano dove gli attori dell’innovazione sociale possono diventare attori protagonisti del cambiamento sociale».

Tra questi c’è anche il Politecnico di Milano che insieme a Fondazione Cariplo partecipa al progetto IncludiMi dedicato proprio al miglioramento della partnership tra pubblico e privato. La prima azione ha visto l’università analizzare proprio le policy di ingaggio che Milano ha in essere nel rapporto con gli enti sociali che collaborano al welfare cittadino. «Il rapporto tra gli enti locali e gli attori sociali ha bisogno di essere re-ingegnerizzato.

Nell’epoca della scarsità delle risorse pubbliche i tradizionali bandi di gara non sono più efficienti. C’è bisogno si un upgrade che ci porti verso il modello pay for result», chiarisce Denise Di Dio, managing director di Tiresia, Centro di ricerca internazionale promosso dalla School of Management del Politecnico specializzato nel campo dell’innovazione sociale e d’impatto. «Si tratta però di un modello che, legando la remunerazione del capitale investito al raggiungimento di un risultato prestabilito, sposta i rischi totalmente a carico dell’imprenditoria sociale. È da qui che nasce l’esigenza di usare strumenti, come il design for policy, che permettano di risolvere questo squilibrio: si condivide la progettazione e si condividono anche i rischi», chiosa Di Dio.

In cosa consiste precisamente questo processo? «È una forma di co-progettazione degli interventi che ingaggia in modo attivo proprio i soggetti a cui quella progettualità è dedicata», illustra Stefano Maffei, professore associato del dipartimento di Design e responsabile scientifico di Polifactory. «Design for policy significa costruire insieme, ente pubblico e attori sociali, linee strategiche e soluzioni per poi misurarne gli effetti, sempre in una logica condivisa che tenga insieme i dati scientifici con quelli esperienziali e di percezione da parte dai cittadini».

Il percorso del capoluogo lombardo verso questa nuova forma di gestione del welfare viaggia su azioni pensate proprio per «avvicinare sempre di più le politiche pubbliche alla cultura della valutazione di impatto e per sperimentare nuove forme di interazione tra finanza, impresa e Terzo settore. Nel farlo ci avvaliamo dell’aiuto dei più importanti riferimenti in questo campo, fra cui Social Impact Agenda per l’Italia. Milano rimane un’assoluta avanguardia nel nostro Paese. Esistono però sperimentazioni molto più avanzate all’estero, penso in particolare ai Paesi anglosassoni, che dobbiamo guardare per costruire il futuro. Ed è proprio questo il lavoro che stiamo facendo», conclude l’assessore Tajani.

Si chiama Torino Social Impact il sistema attraverso cui il capoluogo piemontese su iniziativa della Camera di Commercio locale sta mettendo mano alla governance del welfare cittadino. Proprio la Camera di Commercio si propone come centro di competenza sulla misurazione degli impatti sociali. La metrica sarà costruita con il coinvolgimento di enti non profit, cooperative, imprese e pubblica amministrazione


Un robusto sistema di competenze scientifiche e tecnologiche, un Terzo settore che coniuga una consolidata vocazione sociale civile e religiosa con significative capacità imprenditoriali, un sistema industriale profondamente radicato nella società, una nuova generazione di incubatori e acceleratori sociali ed infine importanti capitali orientati all’impatto sociale. È questo il ritratto di Torino, nella cui ricchezza e vivacità ha preso vita il Memorandum Torino Social Impact. A fare da motore dell’iniziativa la Camera di Commercio torinese.

«Abbiamo cominciato ad occuparci di economia sociale circa 15 anni fa», spiega il segretario generale della Camera di Commercio, Guido Bolatto. «E i numeri, possiamo dirlo oggi, ci hanno dato ragione». Bolatto si riferisce ad un ecosistema di 1.900 realtà, «le più disparate tra loro». Si va dalle 400 cooperative sociali alle 90 imprese sociali, fino alle 1.100 associazioni di volontariato e le 250 associazioni di promozione sociale che costituiscono il sistema Torino. «È davvero un mondo frastagliato e diffuso ma importante, infatti il solo mondo della cooperazione sociale conta 22mila occupati e 830 milioni di fatturato», sottolinea, «si tratta di dati molto significativi e che si spiegano con la continua ibridazione tra mondo economico tradizionale e sociale cui stiamo assistendo».

La nascita di nuove esigenze e bisogni combinato con l’arretramento del welfare pubblico, dovuto alla scarsità delle risorse, infatti genera nuove risposte. «E non bisogna dimenticare», puntualizza il segretario generale, «le nuove tecnologie che stanno avendo in questo senso una funzione accelerante: stiamo vivendo una rivoluzione del modello di welfare che ci porterà ad avere meno impiegati di basso livello e più assistenza remota, intelligente e qualificata». È proprio sulla scorta di tutte queste evidenze che Camera di Commercio ha pensato Torino Social Impact. «Un’alleanza diffusa a cui tutti i soggetti che si occupano di imprenditorialità sociale, sottoscrivendo un manifesto, possono aderire». Camera di Commercio si candida ad essere il centro di competenza della misurazione dell’impatto dell’ecosistema torinese: «Siamo un ente pubblico quindi per sua natura terzo, e siamo l’ente che sovraintende e governa lo sviluppo del territorio. Nella nostra governance siedono tutte le categorie produttive, tutti gli attori dell’economia del territorio», conclude Bolatto.

Un patto che si fonda sulla partnership tra pubblico e privato e che ha come ambizione quella di costruire «una visione collettiva e una strategia comune, che ci faccia riconoscere all’esterno come una città intera che si muove su queste tematiche», chiarisce Paola Pisano, assessore all’Innovazione del Comune, «la speranza e l’obiettivo sono che l’innovazione generi un co-design progettuale che diventi calamita per investimenti e progetti dall’esterno. Le città devono parlare e fare rete tra loro. È questo l’orizzonte, e lo è a livello europeo».

Torino vuole costruire questo ecosistema per diverse ragioni. «In primo luogo perché ci sono delle occasioni che sono legate ai bisogni delle persone che diventano anche opportunità di mercato e sviluppo solo quando si organizzano. E i bisogni delle persone si possono organizzare solo dentro ecosistemi attraverso partenariati complessi. In secondo luogo ci sono tantissimi investitori in cerca di imprese che sappiano trovare soluzioni di finanza specializzata per le persone. Ma così come capita nel venture capital gli investimenti avvengono prima nei settori che nelle imprese», ragiona l’assessore. «Infine, dal punto di vista politico e del rapporto con il pubblico, è necessario avere un ecosistema organizzato perché è più facilmente promuovibile», postilla Pisano.

In questa ottica intercettare nuove risorse significa anche rispondere più e meglio ai bisogni: «I problemi li conosciamo, sappiamo bene quali sono le criticità che mettono in difficoltà i cittadini: la casa e il lavoro prima di tutto». La questione nodale sono le risposte. «Dobbiamo vivere il cambio di paradigma: non è più il profit che dà risorse al sociale ma il sociale che diventa leva di business. Ma è ovvio che se non si è in grado di misurare quanto la risposta è adeguata, cioè quante persone includi e quanti posti di lavoro crei, il gioco non vale la candela», conclude Pisano, «è un progetto ambizioso, nato dal basso che noi, come ente locale, sosteniamo e accompagniamo».


Milano-Torino, impact city a confronto

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