Palestina e Israele

Bissan e Gal, figli della convivenza possibile

di Daniele Biella

Sono due 19enni nati e vissuti nel villaggio israeliano di Neve Shalom Wahat al Salam, che ospita 70 famiglie ebree e palestinesi. Vita.it li ha incontrati

"Trump ha spostato l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, cosa ne pensate?" Gal, 19enne israeliano, mette una mano sopra la testa, un gesto che non ha bisogno di spiegazioni. Bissan, coetanea palestinese, scuote la testa sconsolata. Reduci da una settimana intensa in Italia di incontri nelle scuole e con la cittadinanza di varie città del nord Italia, da Milano a Bergamo, da Vercelli a Venezia, Bissan Tibi e Gal Zak sono due ragazzi molto sicuri di sé. Vengono dal villaggio pioniere Neve Shalom – Wahat al Salam (“Oasi di pace” in ebraico e in arabo), situato a metà strada tra le città di Tel Aviv e Gerusalemme: è qui che dall’inizio degli anni settanta, da un'idea del fondatore, il frate dominicano Bruno Hussar, vivono i genitori di entrambi, assieme a un’altra cinquantina di famiglie ripartite equamente tra ebrei e palestinesi, tutti con cittadinanza israeliana. Ed è qui che hanno vissuto tutta la loro vita finora, in un modello di dialogo, rispetto e convivenza unico del suo genere in uno Stato in eterno conflitto come Israele, di cui ricorre oggi il 70simo anniversario della nascita che coincide però con una data funesta per i palestinesi, la Nakba o “catastrofe”, ovvero l’abbandono forzato delle proprie terre per fare posto ai nuovi arrivati. Una ferita ancora aperta che sta avendo un ulteriore picco in queste ore con gli almeno 55 morti per mano dell’esercito israeliano al confine con la Striscia di Gaza.

Vita.it ha incontrato i due giovani a Milano, accompagnati dai volontari dell'associazione italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam (nata per diffondere il messaggio di convivenza di Neve Shalom Wahat as Salam), per uno scambio franco su cosa significhi essere la proposta vivente – loro, i figli più grandi dei fondatori del villaggio – di una pace possibile in quelle terre tanto tragicamente contese. “Che si possa vivere assieme è un dato di fatto, basta vedere la nostra esperienza”, anticipa la domanda Bissan. “Quello che noi abbiamo ma che oggi manca alla politica è la volontà di convivere. È un primo passo necessario ma che non viene fatto: le persone non si vedono come uguali e quindi non vogliono trovare una soluzione comune”. Frasi nette come lo sono le loro vite, sempre immerse nel conflitto – “vivere a Neve Shalom Wahat al Salam significa avere sempre in mente che l’altro esiste e ha necessità di esserlo tanto quanto te” – e consapevoli dell’aria che tira appena usciti dall’area del villaggio. Su cui è appena uscita la storia in italiano, nel libro Il folle sogno di Neve Shalom Wahat al Salam a cura di Brunetto Salvarani. “Dentro il villaggio c’è la ricerca continua del dialogo, anche con tanti momenti comuni e laboratori diretti di risoluzione di conflitti interpersonali. Fuori invece dominano paura e rabbia”, sottolinea Gal. “Non servono pezzi di carta per fare la pace, ma anni di lavoro su un sentiero comune, a livello sociale ancora prima che politico. Invece l’altro, che viene additato come nemico, soprattutto in Israele non è considerato come individuo con cui fare conoscenza”.

L’avamposto di questo muro invisibile (che anticipa poi quello vero, fatto di cemento, alto fino 13 metri e s’insinua nei Territori per 570 chilometri) è la scuola. Mentre nel villaggio sono presenti gli ordini scolastici dall’asilo nido alle elementari e l’insegnamento è bilingue (anche se da qualche anno da scuola privata è diventata parte del ministero dell’Istruzione israeliano a causa del costo elevato di mantenimento) con il 90% dei bambini che vengono da fuori – per l’accesso alle scuole, così come per andarci a vivere, c’è una lunga lista d’attesa tanto che si sta pensando di ampliare il villaggio fino a 120 famiglie – l’istruzione superiore va fatta al di fuori di Neve Shalom Wahat al Salam. Gal e Bissan hanno appena concluso i sei anni di secondaria in una scuola pubblica israeliana: “Sono stati anni tremendi, soprattutto i primi. Come palestinese ero continuamente bersagliata da commenti e, nei periodi più complicati come il rapimento del soldato Gilad Shalit o l’Operazione Piombo Fuso su Gaza, venivo insultata. Chi invece era semplicemente curioso mi faceva domande del tipo ‘sei nata a Gaza?’, ‘perché parli ebraico?’, perché non porti l’hijab’”, ricorda Bissan. A ruota Gal: “Quello che per noi era normale, ovvero la convivenza, per loro era strano. Ho trovato molta ignoranza, nel senso che tutto quello che sanno i ragazzi dei palestinesi arriva dalle news in televisione, non hanno mai comunicato seriamente con un arabo in tutta la loro vita. Anche nelle città miste, in cui sono presenti sia israeliani che arabi, non ci si parla abitualmente”.

Dopo i primi anni la situazione è migliorata, “alla fine del ciclo scolastico il 90% dei 150 alunni della scuola ha stretto un buon rapporto con noi, il restante 10% è rimasto invece piuttosto ostile. Per me andava meglio perché sono ebreo e quindi non parte minoritaria della società, per Bissan e gli altri due ragazzi palestinesi del villaggio che frequentano la scuola è stata più dura”. Quel che è certo è che “questi anni difficili ci hanno resi più forti”, riprende Bissan, primogenita con tre fratelli e con la madre giornalista collaboratrice della Cnn (Gal, terzo di quattro fratelli, ha madre nutrizionista e padre ingegnere hitech) “anche se molte volte si devono mandare giù bocconi amari per come è impostato il piano educativo israeliano: sono pochissimi i cenni ai palestinesi, in un intero testo scolastico è presente una sola foto, ovvero una donna con il velo. Mentre della lingua araba si impara solo a salutare, a dire come ci si chiama e a ordinare hummus al ristorante’”. È un sorriso amaro quello dei due ragazzi, coscienti però che il loro impegno può portare frutti, “perché le cose possono cambiare davvero. Un esempio? Prima nella nostra scuola un palestinese non poteva partecipare alla commemorazione dell’Olocausto a meno che si alzasse in piedi a cantare l’inno israeliano con tutti gli altri. Ora, grazie alla nostra ‘piccola’ battaglia, la partecipazione è libera”.

Si tratta di un processo, lungo ma necessario. A Neve Shalom Wahat al Salam sia gli adulti che i giovani ne sono fermamente convinti e tutto è pensato per il confronto, a cominciare dala Scuola per la pace, struttura voluta dal fondatore come luogo in cui recarsi per appianare i conflitti. Anche l’ecumenismo ha un ruolo fondamentale: su una parte di collina è presente la Dumia Sakinah, la ‘Cupola del silenzio’, centro spirituale aperto a tutti in cui non appare alcun simbolo religioso. Poi, grazie anche all'associazione Gariwo, è presente nel villaggio un 'Giardino dei soccorritori', luogo in cui sono piantati alberi che onorano i giusti che hanno salvato altri di qualunque appartenenza e fede. “Vietato dire che non c’è via d’uscita, che la pace non è possibile. Bisogna conoscersi, parlarsi”, testimonia Gal. “Non c’è da spaventarsi nel credere nell’uguaglianza tra israeliani e palestinesi. È un processo complicato, terribilmente complicato, ma è del tutto fattibile”, conclude Bissan.

E il futuro personale di Bissan e Gal? "Sono stato esentato dal servizio militare obbligatorio e ora farò due anni di servizio civico volontario, poi vedrò cosa scegliere per l'Università", risponde Gal, il cui punto di riferimento culturale è il filosofo Yeshayahu Leibowitz. "Io invece sono indecisa se studiare legge qui in Israele o cinema altrove, perché mi piacerebbe vivere per un po' in un'altra nazione", è la strada di Bissan. Entrambi sanno già a lungo termine dove vorranno essere: "quando faremo famiglia vogliamo rimanere a vivere a Neve Shalom Wahat al Salam".


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