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Africa

Al fianco dei burkinabé colpiti dalla siccità

di Maria Grazia Patania

Uno sguardo al Burkina Faso, che negli ultimi 20 anni ha patito profondamente gli effetti del cambiamento climatico a causa di carestie e siccità oltre a una notevole instabilità politica, con gli occhi di cerca di portare sul territorio la sensibilizzazione sul tema della malnutrizione infantile

«I burkinabé devono sapere che la povertà non è una condanna a morte, ma che naturalmente hanno a disposizione alimenti a sufficienza per evitare la malnutrizione», esordisce così Casimir Soanga, coordinatore medico nell’area di Léo, a sud del Burkina Faso, quasi al confine col Ghana, dove la mancanza di strutture sanitarie e l’enorme distanza fra villaggi pregiudica la sensibilizzazione su temi quali salute materna e infantile o malnutrizione. Il suo compito è fare da intermediario fra le operatrici sul campo (animatrici) e l’apparato burocratico per coordinare meglio i programmi da attuare secondo uno schema fatto di dimostrazioni pratiche e lezioni teoriche.

Il Burkina Faso è un Paese dell’Africa occidentale fra i più poveri al mondo che negli ultimi 20 anni ha patito profondamente gli effetti del cambiamento climatico a causa di carestie e siccità oltre a una notevole instabilità politica dalla dichiarazione di indipendenza nel 1960 ad oggi. Questa instabilità si è acuita recentemente, soprattutto lungo la frontiera col Mali dove si moltiplicano incursioni armate e nuovi arrivi di profughi che si aggiungono a quelli già presenti nel Paese (almeno 24.000 secondo l’UNHCR). Stando agli ultimi dati anagrafici disponibili, abitano nel Paese circa 18.6 milioni di persone, di cui almeno sette milioni vivono in povertà. L’economia si fonda per l’80% sull’agricoltura e proprio qui sta il grande paradosso della malnutrizione: nonostante la maggior parte della popolazione lavori nel settore agricolo, non ha adeguato accesso alle risorse alimentari o non sa usarle correttamente.

Lo scorso novembre, l’UNICEF ha lanciato un allarme per i casi di malnutrizione acuta grave (SAM) che ha toccato il record più alto degli ultimi 10 anni nei sei Paesi del Sahel, colpendo 1.3 milioni di bambini bisognosi di cure mediche. Il Burkina Faso non fa eccezione e le morti per malnutrizione sono tanto più tragiche se si considera che potrebbero essere evitate e che il costo sociale di questa malattia è enorme. La malnutrizione, infatti, pregiudica lo sviluppo psicofisico e le capacità intellettive di chi ne soffre, compromettendo la crescita economica di tutto il Paese. A tal proposito, i dati della Banca Mondiale riportano uno scenario allarmante col 36% di bambini sotto i cinque anni sottosviluppati e precisano che “la maggior parte dei danni irreversibili si verificano durante la gestazione e nei primi 24 mesi di vita”. Anche Anne Vincent, rappresentante dell’UNICEF, ha ribadito come “la malnutrizione costi caro” al Paese e sottolineato che “dal 2017 il governo consacra una parte del bilancio alla nutrizione dei bambini da zero a cinque anni di età. Per anni, infatti, il tema della malnutrizione è stato taciuto e quasi sottovalutato, come conferma Traoré Soulemain, responsabile del CSPS (Centre de Santé et Promotion Sociale) di Léo, durante una visita alla struttura. “La prevenzione serve a evitare malattie future e costi inutili, riducendo le spese sanitarie complessive”, chiarisce il medico.

Fadilatou Nabié, responsabile del gruppo di animatrici di Léo, entra subito nello specifico del suo lavoro: «Secondo la tradizione popolare, se un bambino piccolo mangia un uovo, da grande diventerà un ladro. Parte del nostro lavoro consiste anche nello scardinare cattive prassi alimentari”. Le principali resistenze, infatti, si incontrano a livello familiare e comunitario dove permangono comportamenti dannosi e disinformazione. Fondamentale è anche riconoscere la patologia e i suoi sintomi dato che «nel Sahel la parola svezzamento coincide con la parola malnutrizione a dimostrazione di come sia considerata quasi una tappa obbligata della crescita del bambino», spiega la dottoressa Monica Rinaldi, responsabile del settore nutrizione nell’area del Sahel per l’ONG italiana LVIA attiva in Burkina Faso, che in un incontro nella sede della capitale Ouagadougou, illustra anche come il loro lavoro sul campo sia cambiato. Dopo il 2011, con l’impennata dei prezzi delle materie prime e il conseguente indebitamento delle famiglie, soprattutto di quelle più povere, si è accantonato il lavoro a lungo termine per concentrarsi sulle emergenze umanitarie. “La priorità è tornata a essere salvare vite umane in situazioni di emergenza”, precisa la dottoressa Rinaldi.

La situazione non è migliore al nord. Tougouri è un villaggio della regione di Namentenga nella parte settentrionale del Burkina Faso, dove si arriva partendo dalla capitale Ouagadougou dopo circa due ore di macchina lungo la nazionale numero 3. Il centro medico locale è stato inaugurato nel 1986 e inizialmente si concentrava sulle cure per la malnutrizione unite alla sensibilizzazione su temi quali salute materna e infantile, ma nel tempo ha ampliato il proprio raggio di azione in base alle esigenze riscontrate sul campo. Gestito da suore col supporto finanziario della ONLUS italiana Amani Nyayo in collaborazione con la Diocesi di Lucca, solo nel mese di dicembre 2018 ha assistito 29 pazienti affetti da Malnutrizione Acuta Moderata (MAM) e 19 da Malnutrizione Acuta Grave, registrando un record annuale nonostante il raccolto abbondante dell’ottobre precedente su cui faceva affidamento Suor Hélène, la referente sul campo.

“Servirebbero anche attività di scolarizzazione parallele perché purtroppo la malnutrizione spesso altera gli equilibri delle famiglie e costringe cugine o sorelle maggiori a lasciare gli studi per prendersi cura di cui si ammala”, confida la suora che si rammarica dei fondi perennemente mancanti per far fronte a tutte le esigenze. È lei a spiegare che i periodi più critici sono solitamente “da aprile a settembre quando si registra il maggior numero di pazienti sia in struttura che per le visite ambulatoriali” prima di incoraggiare le donne venute al centro per i controlli a portare la propria testimonianza. Una volta dimessi, infatti, i bambini devono tornare ogni 15 giorni per i controlli e per ricevere le medicine.

La prima a parlare è Salimata, 35 anni, sei figli e due da poco guariti dalla malnutrizione. Diretta e concreta, chiede che le suore non vengano lasciate sole perché “Qui se non puoi allattare tuo figlio, ti danno il latte e le vitamine e ti seguono fin quando non guarisci. Senza di loro molti bambini morirebbero”. L’unico momento in cui sorride è quando pesa i suoi figli e la lancetta ne sancisce la guarigione. Il resto del tempo lo passa con lo sguardo triste e assente, perso in lontananza. Subito dopo, prende la parola una donna di 45 anni che tiene in braccio il nipote di tre. “Sono arrivata qui sicura che non ce l’avrebbe fatta e invece ora ride e scherza di continuo”, per Safiatou il sorriso di suo nipote è la sintesi perfetta del lavoro svolto dal centro medico. Suor Hélène che fa da mediatrice specifica che il bambino era arrivato pieno di edemi e così malnutrito che nessuno credeva ce la potesse fare, ma ora è fuori pericolo e torna solo per le visite ambulatoriali. Infine, porta la propria testimonianza Zonabo che ha 29 anni e ha già perso un figlio a causa della malnutrizione. Le altre tre sono state ricoverate al centro per quasi un mese. “Sono arrivata in lacrime al centro. Ero sicura che le mie tre bambine sarebbero morte. Mio marito mi ha consigliato di venire e quando può mi accompagna. Spero che le suore continuino ad avere i fondi necessari per aiutarci. Senza fondi, si muore”, racconta questa donna dal sorriso amichevole prima di verificare il peso delle figlie.

Andando via, suor Hélène racconta che in passato le donne ricoverate coltivavano un orto dove piantavano erbe nutrienti per le salse, ma hanno dovuto sospendere le attività perché non c’è abbastanza acqua. Era un modo per trascorrere il tempo durante il ricovero e incrementare il cibo a disposizione. La questione delle risorse ritorna ancora una volta perché queste donne conoscono bene la linea sottile che separa la vita dalla morte e la differenza che delle risorse adeguate riescono a fare.

Dagli incontri in loco, emerge con chiarezza che la malnutrizione uccide soprattutto a causa dell’ignoranza e che, potenziando le campagne di sensibilizzazione e l’accesso alle risorse alimentari, si potrebbe diminuire drasticamente il numero di morti e perfino arrivare a debellarla. La vera rivoluzione sarebbe dare ai burkinabé le informazioni adeguate per essere autonomi nell’alimentazione e nutrirsi correttamente. Ed è alla luce di questa consapevolezza che la diminuzione dei fondi destinati dalla comunità internazionale ai progetti di sicurezza alimentare nel Sahel risulta ancora più grave, soprattutto se si considerano i dati del Global Nutrition Report 2018 secondo cui “verosimilmente nessun Paese africano raggiungerà tutti gli obiettivi relativi alla nutrizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”. Nel 2019 la povertà potrà anche non essere una condanna a morte, ma l’ignoranza e l’indifferenza lo sono di sicuro.


Al fianco dei burkinabé colpiti dalla siccità

Testi a cura di Maria Grazia Patania
Foto gentilmente concesse da Francesco Malavolta


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