Reportage dal Libano/1

Tra i profughi che il Libano non vuole più

di Anna Spena

Nel Paese non c'è un dato ufficiale sul numero di profughi. I rifugiati siriani, circa 2 milioni, vivono da anni nelle tende, negli edifici abbandonati, nei garage senza finestre sul ciglio della strada. Ma adesso il Paese di 4,5 milioni di abitanti non li vuole più

C’è un’immagine, tra tante, che mi ha commosso. Quella di Aarif, 27 anni, profugo siriano, che con sua moglie Raya e il loro tre figli, l’ultima ancora nella pancia della mamma, vive nel campo di Shelbi 1, nel sud del Libano. Un campo piccolo con poche tende. Aarif sapeva che sarei arrivata nella sua, accompagnata da un operatore dell’ong italiana Avsi, per parlare con lui e la sua famiglia. Una folata di vento caldo ha spostato il velo leggero che faceva da porta alla tenda. Prima che Aarif ci vedesse, noi abbiamo visto lui. Sembrava avere molti più anni di quelli che poi avrebbe raccontato, mentre si pettinava i capelli folti e neri davanti a uno specchio con il vetro di plastica graffiato, quelli che non restituiscono un’immagine chiara della faccia. Si stava preparando per essere più bello, presentabile davanti agli occhi di un’estranea.

Questa è una scena che emoziona e che solleva: un uomo, esile e altro, con la pelle nera di sole, che vive da profugo, rifugiato in un paese che non lo vuole, mentre si pettina i capelli. Commuove, perché è piena di tenerezza; solleva perché c’è un senso intimo di umano che non muore, resiste. «Veniamo dalla città di Deir el-Zon», sorride.

«Viviamo qui da sette anni, sempre nella stessa tenda. I miei primi due figli, Abbas e Fatima, sono nati in Libano, anche la terza nascerà qui». La moglie di Aarif, Alia, ha 26 anni, ed è tutta avvolta in uno Jilbab blu, coordinato allo Hijab, che non le nasconde il corpo ma lo avvolge. Ormai è incinta di sette mesi e quei pochi vestiti non le stanno più. Aarif e Alia non parlano mai della Siria ai loro figli: «Loro sono nati qua, questo campo profughi è l’unica casa che conoscono. Stare qui è normale, a che serve raccontargli che c’è altro. L’importante è che siano felici. Gli basta il nostro amore». Prima di salutarci Aarif mi chiede di scattargli una foto, «una foto di famiglia, non ne abbiamo mai fatta una tutti insieme».

Avevo un’idea precisa prima di partire. Provare a capire, e poi raccontare, cosa succede alle persone che vivono da tanti anni in un campo profughi. Come quell’emergenza ha stratificato le loro vite per diventarne quotidianità. Un progetto semplice: dove dormono, cosa mangiano, dove cucinano, come crescono i figli, come si lavano i capelli e il corpo. C’è un motivo preciso se la scelta è caduta sul Libano. Non è solo Medio Oriente, come comunemente viene chiamato, ma è vicino a noi. Lo pensiamo lontano, come se quelle vite in nessun modo ci riguardassero. Invece bastano tre ore e mezzo di volo dall’Italia per arrivare in questo paese, grande quanto l’Abruzzo, dove la geografia è definita dalle bombe che sono cadute, e ancora cadono, nel Paese di fianco: la Siria.

Il Libano ospita, ufficiosamente, due milioni di profughi siriani. L’ultima stima ufficiale dell’Unhcr risale al 2015 ma sono ormai passati 4 anni e la guerra in Siria continua a mietere profughi oltre che vittime. Tre anni fa si registravano un milione e mezzo di rifugiati ma, su pressione del governo libanese, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha smesso di registrarli. Per capire fino in fondo il peso di questo numero bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, che non raggiunge i cinque milioni di abitanti. I rifugiati presenti in Libano sono tantissimi ma nessuno è riconosciuto dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi strutturati, e per questo il problema dell’accoglienza è stato – anche – un problema di parole: come li chiamiamo? Profughi? Visitatori?

Vivono, alcuni anche da otto anni, nelle tende, negli edifici abbandonati, nei garage senza finestre sul ciglio della strada. Prima il Libano gli accoglieva, ma adesso sono troppi e non li vuole più.

Appena arrivati a Beirut può accadere di non capire. In quella città non si riconosce niente di quella che una volta era chiamata la Parigi del Medio Oriente. Tante confessioni religiose, strade poverissime e congestionate, insieme a quartieri alla moda, un centro storico militarizzato e piazze simili a cantieri aperti dove, prima che cadesse giù un edifico trivellato dai colpi, stavano già costruendo qualche grattacielo. Poi Marco Perini, Regional Manager di Avsi, Ong italiana presente in Libano dal 1996 con decine di progetti in svariati ambiti, restituisce in parole un’impressione che non ero ancora riuscita a decodificare. «Il Libano», mi ha detto, «è il paese degli equilibristi».

Avsi dal 2011 è impegnata anche nell'assistenza dei profughi siriani che hanno trovato rifugio oltre frontiera. E sono stati loro ad accompagnarmi nella regione di Marjayoun, al sud, fino al confine con Israele. Libano e Israele sono divisi da un muro, il muro blu. I carrarmati passano sul confine e adesso fanno parte del paesaggio. Un luogo calmo con un tempo fermo. «Da qui», ha detto un operatore libanese di Avsi mentre indicava il cielo, «possono passare solo gli uccelli. Chissà che c’è dell’altra parte».

In Libano è impossibile muoversi senza imbattersi nei checkpoint. La prima occhiata del soldato di turno è sempre al guidatore. Poi si allungano con la testa e scrutano dentro. Se la tua faccia è ok, puoi passare. Non hanno bisogno di controllarti i documenti. Altrimenti no. Cercano qualcosa, o meglio, cercano qualcuno: i siriani, che, per paura, se ne stanno quasi tutti lì nei campi. Perché questo paese è il loro limbo. Non possono tornare in Siria e non riescono ad arrivare in Europa.

Il sud in Libano è disteso e lento. La strada verso il distretto di Marjayoun si snoda tra terre coltivate e campi profughi che, visti dall’alto, sono come piccoli tasselli di un mosaico che è difficile da ricostruire. Ce ne sono di tutte le grandezze. Come piccoli villaggi a sé che appartengono a un’altra dimensione.​

Sarada uno e due, Marj el Kholh, Shelbi, dove abbiamo incontrato Airif e tanti altri. Anche Sayid vive nel campo di Shelbi 1, ha 29 anni e cinque figli. Solo il primo, Shareef, è nato in Siria, ha 10 anni. È arrivato in Libano otto anni fa e di quel viaggio fatto su un pullman improvvisato per passare il confine non ha nessun ricordo. «La casa ci è caduta in testa», racconta Sayid. «Anche se volessi riportarli tutti indietro non sapremmo dove stare». Degli altri quattro figli Sayid e sua moglie Basma non sanno con precisione dirne gli anni. Non si ricordano quando sono nati. Nei campi profughi il tempo si dilata. Oggi per vivere, come la maggior parte dei siriani, coltivano la terra dei libanesi. «Io guadagno», dice «20 dollari al giorno, mia moglie meno di un dollaro all’ora».

Ma gli ultimi mesi sono andati meglio. Sayid è rientrato nel gruppo dei beneficiari di Cash For Work, l’iniziativa sviluppata da Avsi che permette ai rifugiati di fare lavori socialmente utili, migliorare il rapporto con la comunità esterna e ricevere un compenso per sostenere la famiglia: «Ho fatto le pulizie in un ospedale vicino», racconta. «Lavoravo sei ore al giorno per venti dollari. Tanto per noi. Ho potuto comprare più volte la carne per i miei figli».

Damasco, Raqqa, Homs, Dar’a, Idlib, Aleppo. I profughi in Libano arrivano da ogni parte della Siria. L’Isis bombardava, qualcuno scappava e qualcuno restava. Assad bombardava per riprendersi il territorio e iniziava a scappare pure chi si era salvato dalle prime bombe. Tutti sono scappati senza niente. Mentre la loro case andavano in frantumi non c’era tempo per pensare. L’unico obiettivo era salvare se stessi.

«Avevo una casa con quattro camere da letto. Una bomba l’ha distrutta. Così sono arrivata in questo campo profughi», racconta Afrin, 39 anni. «Però si stava malissimo e dopo tre mesi ho deciso di ritornare in Siria. Ma la Siria come me la ricordavo io già non esisteva più e sono tornata qua. E qua quasi non distinguo i giorni».

I campi profughi si assomigliano tutti. Ed è vero che il tempo è sempre uguale. I bagni sono all’aperto, con l’incastro alla turca. Quattro pareti di alluminio che nascondono agli occhi degli altri il water. Li usano anche in venti persone diverse. Quelle che adesso sono diventate le loro case, in realtà sono tende di plastica dell’Unhcr montate su strutture di legno. Si dorme a terra, anche in 17, nella stessa stanza. Però nessuna “casa” puzza, nessuna casa è sporca. Le donne si svegliano presto, all’alba, e stanno lì a pulire, a sistemare, a profumare. «Perché sennò», hanno raccontato in tante, «ci vengono le malattie. E noi, pure le malattie, non le vogliamo». Per vivere nella tenda bisogna pagare l’affitto al proprietario del terreno dove la costruisci, un libanese.

È lo shawish, il capo campo, che raccoglie i soldi e li porta al proprietario della terra. Tutti i profughi hanno paura di lui, siriano come loro perché è quello con più potere che decide come devono andare le cose nel campo e detta le sue leggi. Lui, lo shawish, insieme agli altri siriani, ha paura dei libanesi. Lo Shawish che ho incontrato nel campo di Marj el Kholh vive in Libano da otto anni. Non gli interessava parlare, era arrabbiato e basta. Voleva farmi vedere quello che succede ancora ad Idlib, la città da cui proviene, l’ultima roccaforte Jiadhista. Mi ha girato lo schermo del telefono e ha premuto play. È partito un video. A Idlib la gente viene sgozzata con un taglierino così la morte, invece che eterna, diventa lunga. «E il governo», urla, «ci vuole arrestare e far ritornare là? Ci prendono e ci consegnano al regime?».

Continua…


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