Assistenza

Il senzatetto trovato morto nella sua capanna vicino al mare di Siracusa

di Alessandro Puglia

A darne notizia il mediatore culturale Ramzi Harrabi che ha organizzato un momento di preghiera per ricordare l’uomo tunisino che da diversi giorni non andava più in mensa alla Caritas. Nella capanna di Monji, che in arabo significa il Salvatore, un gratta vinci ancora intatto, il suo inseparabile marsupio e tanti sogni infranti

Un gratta e vinci ancora intatto, un pacco di sigarette, un posacenere, una lattina di fanta, qualche medicinale e un telo da mare in cui sono disegnate sdraio e secchielli utilizzato per ripararsi dal sole. C’era questo e poco altro nella baracca di Monji, che in arabo significa Colui che salva, il senzatetto tunisino di 61 anni trovato morto dopo diversi giorni all’interno del suo modesto giaciglio, a pochi passi dal mare, nella zona del molo di Sant’Antonio a Siracusa.

Ad accorgersi che Monji non c’era più è stato un suo amico, anche lui senzatetto, Mohsen che per due giorni non l’ha più incontrato alla mensa della Caritas, luogo in cui Monji andava tutti i giorni per poi fermarsi a parlare con altri ragazzi migranti sulla panchina del Pantheon: «la sua preferita», spiega Ramzi Harrabi, mediatore culturale di lungo corso, da sempre vicino alle esigenze dei migranti e che a Siracusa ha fondato una scuola di studi interculturali.

Ramzi è stato informato dell’accaduto dall’amico senzatetto, Mohsen, che in arabo invece significa benefattore: «Se non fosse stato per lui chissà quando si sarebbe scoperta la sua morte in quella baracca piena di sogni infranti», aggiunge commosso Ramzi che fuori da quella capanna, ora sotto sequestro, ha organizzato un momento di preghiera. Erano presenti oltre a Ramzi, l’amico Mohsen, un altro compagno di mensa, un volontario della Caritas di Siracusa e Clara Venuto, una cittadina siracusana che lavora con i richiedenti asilo. Nessun altro tra i presenti alla sua cerimonia. «Dove sono le associazioni che si occupano di immigrazione? », chiede a gran voce Ramzi. «Ci sono immigrati di serie A e immigrati di Serie B», aggiunge Clara.

La vita non era stata così generosa con Monji. Nel 2000 era arrivato in Italia e regolarizzato con la legge Bossi-Fini, lavorava nelle serre del Ragusano e dopo un brutto incidente stradale era tornato in Tunisia. Nel 2008 la morte della madre è stata per Monji un evento insuperabile, poi qualche problema con la legge, da quando sei mesi fa era uscito dal carcere nessuno si era più preso cura di lui.

A pochi passi dalla sua capanna, Mohsen, l’amico senzatetto e i pochi presenti hanno invocato la misericordia di Allah con la Sura del Corano l’Aprente che così recita: Ti adoriamo, ti chiediamo aiuto, guidaci sulla retta via. Nella baracca vicino al mare c’era anche il marsupio che Monji portava sempre con sé: «Dalle fessure abbiamo notato che nella sua modesta abitazione ci sono dei nuovi materassi, per chi una casa non ce l’ha quella capanna è come un casale», conclude Ramzi che durante la pandemia a Siracusa ha cercato di incontrare in strada le persone più vulnerabili. Come Monji che con il suo telo con le sdraio e i secchielli per ripararsi dal sole ci ricorderà, ancora una volta, di quanti sogni infranti in una baracca possono essere salvati.


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