Primo maggio

Un lavoro solo non basta più, neanche per curarsi

Cresce la percentuale degli occupati in povertà, +55% in 10 anni. Tanto che la «capienza» delle dichiarazioni e la capacità di anticipare la spesa incide sulla possibilità di curarsi. È quanto risulta dalla ricerca dell’Iref, realizzata grazie ai dati di 785.466 contribuenti che si sono rivolti al Caf Acli. Per Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli, sono numeri preoccupanti «che ci raccontano di occupazioni con stipendi da fame, orari impossibili, contratti al di sotto di ogni minimo di legge»

di Alessio Nisi

lavoro

La povertà lavorativa colpisce i giovani con meno di 30 anni quattro volte di più rispetto agli ultracinquantenni: gli under30 con un lavoro povero sono il 70% in più rispetto agli under50. Tra le donne l’incidenza è dell’11,6% contro il 5,3% degli uomini. Fortissime anche le disuguaglianze territoriali: tra la Basilicata e la Lombardia c’è una differenza di tre a uno in termini di probabilità di firmare un contratto a bassa retribuzione. Non solo, la differenza può diventare ancora più significativa se da un polo urbano si va verso le aree interne.

Sono alcuni dei numeri emersi da “Un lavoro non basta”, ricerca dell’Iref, istituto di ricerca educative e formative delle Associazioni cristiane Lavoratori Italiani – Acli, realizzata grazie ai dati di 785.466 contribuenti che si sono rivolti al Caf Acli per la compilazione e la consegna del modello 730 del 2024. Di questi quasi il 90% ha un lavoro continuo, cioè almeno 9 mesi di lavoro nell’anno dichiarato. Qui la sintesi della ricerca. Qui la ricerca integrale.

Lo stretto rapporto tra basso reddito e spese sanitarie

In particolare la ricerca Iref ha mostrato l’esistenza di un nesso tra residenza regionale, basso reddito da lavoro e accesso al sistema sanitario: gli occupati lombardi spendono in sanità il 28% in più rispetto agli occupati lucani.

Più nel dettaglio, risulta che i lavoratori del primo quintile di reddito detraggono in media 749 euro l’anno per spese sanitarie. I lavoratori più ricchi (quinto quintile) invece quasi il doppio, 1.369 euro. Eppure, rilevano gli autori dell’indagine, «la salute non è un costo elastico, ossia dipendente dalle risorse del consumatore, ma una spesa che secondo i casi della vita riguarda in maniera indistinta tanto i lavoratori a basso reddito quanto quelli con retribuzioni più alte».

La «capienza» delle dichiarazioni e la capacità di anticipare la spesa incide sulla possibilità di curarsi

Rapporto Iref / Acli – Un lavoro non basta

La sanità è universale, ma per pochi

Sempre a proposito delle spese sanitarie, il direttore Scientifico dell’Iref, Gianfranco Zucca mette in evidenza: «Le spese sanitarie dei lavoratori più ricchi del nostro campioni sono quasi il doppio rispetto a quelli che si avvicinano alla soglia di povertà relativa di bassa retribuzione nel lavoro e questo significa che la sanità è universale solo per una fetta della popolazione».

I dati che abbiamo analizzato, aggiunge, «mettono in luce disuguaglianze economiche e sociali che attraversano il Paese, riflettendo una realtà che riguarda non solo il livello di reddito ma anche l’accesso a servizi fondamentali come la sanità, i trasporti, l’istruzione». 

Un quadro drammatico

I dati dello studio dell’Iref vanno incrociati con quelli dell’Istat. Secondo l’istituto di statistica negli ultimi 15 anni è cresciuto del 20% il lavoro a basso reddito passando dal 16,7% del 2006 al 21% del 2023. Cresce anche la percentuale degli occupati in povertà, passando dal 4,9% del 2014 al 7,6% del 2024 (+55% in 10 anni).

Poco da festeggiare

«Anche questo primo maggio non avremo molto da festeggiare purtroppo, perché al di là dei proclami e dei numeri che accompagnano tanta propaganda politica, negli ultimi 10 anni i lavoratori in povertà relativa lavoratori a bassa retribuzione sono aumentati del 55%, passando dal 4,9% al 7,6% sul totale occupazionale», sottolinea il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia

Età, genere e territorio

Manfredonia ha parlato di numeri preoccupanti «che ci raccontano di occupazioni con stipendi da fame, orari impossibili, contratti al di sotto di ogni minimo di legge.

In particolare mette in evidenza come sia «ancora più preoccupante il fatto che la povertà lavorativa sia interconnessa con questioni generazionali, di genere e territoriali: per ogni uomo con un lavoro povero ci sono 2 donne, mentre le percentuali di incidenza della povertà lavorativa su un ventenne sono di 3,5 volte maggiori rispetto a quelle di un cinquantenne. Se il lavoro buono non torna al centro dell’agenda politica del Governo e di tutto il Parlamento sarà difficile anche solo immaginare il futuro di questo paese». 

Salario minimo e contrattazione collettiva

Per la vicepresidente nazionale delle Acli, Raffaella Dispenza, «bisogna ritornare a discutere di salario minimo, che, insieme alla contrattazione collettiva, può davvero rappresentare un primo intervento a sostegno dei redditi più bassi».

Aggiunge poi: «Come Acli stiamo studiando alcune proposte per definire una soglia di esistenza libera e dignitosa, così come la nostra Costituzione ci insegna. Parleremo anche di questo tema nel nostro incontro “Mondo del lavoro, luogo di speranza” che si terrà il 2 maggio prossimo all’interno degli eventi per il Giubileo dei lavoratori, in collaborazione con il Dicastero per lo Sviluppo integrale umano del Vaticano e con l’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei».

In apertura foto di Alireza Leyli da Pixabay Nel testo video da https://www.youtube.com/user/AcliVideo

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