Diritti

Voci silenziate: la libertà di espressione si riduce in tutto il mondo, da Pechino a Tel Aviv

Il Freedom to write index di Pen America rivela un aumento di scrittori e giornalisti incarcerati, con la Cina in testa a questa classifica. Ma l'onda illiberale si propaga al mondo libero, con Israele quinto Paese che fa peggio. Il giornalista israeliano Meron Rapoport a VITA: «Israele non è la Cina, ma quello che sta facendo rispetto ai giornalisti palestinesi non è un comportamento da democrazia»

di Francesco Crippa

Il vento dell’autoritarismo soffia sempre più forte in tutto il mondo e a farne le spese sono (anche) scrittori, giornalisti, opinionisti, insomma tutti coloro che esprimono idee e che decidono di non piegarsi al potere. Lo scorso anno erano 334 quelli dietro le sbarre in una prigione da qualche parte del mondo, dalla Cina all’Egitto, dall’Arabia Saudita al Myanmar. Un dato in aumento rispetto al 2023, ma la curva sale da sei anni a questa parte. A registrarlo è il Freedom to write index pubblicato da Pen America, organizzazione che dal 1922 tutela la libertà di espressione nel mondo.

Negli ultimi tempi abbiamo sentito parlare di diversi casi di detenzione o violenza che hanno coinvolto giornalisti e scrittori. Basti pensare alla storia di Viktoriia Roshchyna, la giornalista ucraina scomparsa nel 2023 e il cui corpo è stato restituito dalla Russia solo a febbraio con segni di una brutale tortura. Oppure all’incarcerazione in Iran della giornalista italiana Cecilia Sala.

Su VITA, abbiamo raccontato la vicenda di Boualem Sansal, lo scrittore franco-algerino in carcere ad Algeri da novembre e condannato a cinque anni di detenzione per aver espresso posizioni critiche verso il governo del presidente Abdelmadjid Tebboune. Nelle scorse settimane Emmanuel Macron si era detto fiducioso che presto si sarebbe trovata una mediazione, ma il 7 maggio l’Assemblea nazionale francese ha votato una risoluzione per la sua liberazione la cui forza simbolica è stata indebolita dal voto contrario di La France Insoumise, il partito di sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Diversi deputati hanno affermato di essere a favore della liberazione di Sansal pur non condividendone le idee. Il “no”, allora, è stato spiegato con una ragione politica: la risoluzione, invitando il governo e l’Ue a far dipendere il rapporto con l’Algeria da «progressi concreti» nel rispetto dei diritti umani e civili, chiuderebbe ogni spazio di dialogo con il Paese nordafricano. Quello che rimane è che è uno schiaffo alla libertà di espressione.

Libertà di stampa, ecco chi fa peggio

La Cina si conferma medaglia d’oro della triste classifica di Pen America, con 118 scrittori (in senso lato, vengono esclusi dal report solo i giornalisti che si occupano solo ed esclusivamente di cronaca) imprigionati. Sono 11 in più rispetto a quelli contati l’anno prima: un aumento, si legge, dovuto a «un ambiente sempre più ostile verso libertà di espressione» e a una censura che passa in misura crescente attraverso il controllo delle piattaforme digitali. Così, con il pretesto di difendere la sicurezza nazionale, Pechino silenzia chi parla di democrazia, chi critica il Partito comunista, chi tutela le minoranze etniche. Non a caso, poco meno della metà degli scrittori incarcerati nel 2024 è composta da uiguri, tibetani o mongoli, quasi sempre arrestati con vaghe accuse di «separatismo». 

Un discorso analogo vale per l’Iran, che con 43 è il secondo Paese che incarcera più scrittori. Nonostante una piccola riduzione rispetto al 2023 (erano 49), il numero rimane sensibilmente più alto di quello registrato prima dell’inizio delle proteste del movimento Donna, Vita, Libertà nato in seguito all’uccisione di Masha Amini nel settembre 2022. Seguono, dopo l’Iran, Arabia Saudita e Vietnam (23), Israele (21), Russia e Turchia, (18), Bielorussia (15), Egitto e Myanmar (10). Si tratta di una lista di Paesi dove notoriamente il rispetto dei diritti umani ha poco (quando non nullo) diritto di cittadinanza e in cui il dissenso di politici e intellettuali è silenziato. Paesi, insomma, non democratici, o non pienamente, come la Turchia. È proprio per questo che colpisce la presenza, perché in controtendenza rispetto agli altri, di Israele.

Tra le autocrazie, una presenza che stupisce

Come nota il Freedom to write index, Tel Aviv era già al quinto posto della classifica, ma la guerra a Gaza ha determinato un aumento della repressione, che colpisce le voci palestinesi. Per Pen America sarebbe in corso una «continua strumentalizzazione della legge antiterrorismo» tramite la quale vengono colpiti giornalisti e attivisti che commentano online accusati, a volte a ragione a volte molto meno, di incitare all’odio

«Quando si parla di libertà di espressione in Israele bisogna distinguere tra ebrei e palestinesi», spiega a VITA Meron Rapoport, giornalista israeliano editorialista di +972 e direttore di Local Call, due testate dissidenti. «Se sei un palestinese o in generale sei straniero, i tuoi diritti sono limitati. Se invece sei ebreo, può capitare che tu abbia problemi per quello che hai scritto o detto, ma solo in casi molto gravi». Né lui né le due testate su cui firma abitualmente hanno finora avuto episodi simili. «Credo che il privilegio di continuare la nostra attività venga dal fatto che il governo voglia continuare a mantenere l’immagine di unica democrazia del Medio Oriente, perché sa che se chiudesse la bocca anche ai giornalisti ebrei questa immagine verrebbe danneggiata». 

Certo «Israele non è la Cina, ma quello che sta facendo rispetto ai giornalisti palestinesi non è un comportamento da democrazia», dice chiaro e tondo Rapoport. Allo stesso modo, sostiene, non è accettabile che l’esercito israeliano impedisca ai giornalisti internazionali di mettere piede dentro la Striscia di Gaza: «Possono entrare solo quelli israeliani e soltanto embedded [cioè al seguito dell’esercito, ndr]. Non va bene, non è giornalismo perché non si lavora liberamente e non si vedono da sé le cose e ne consegue un’informazione di parte. Una responsabilità su questo ce l’hanno anche i governi occidentali e soprattutto i mass media, che accettano questa cosa invece di essere solidali con i colleghi».

Dagli Usa arriva il pericolo Trump

La situazione di Israele – aggravata dalla guerra, dopo lo scoppio della quale il governo ha chiuso gli uffici di Al Jazeera a Tel Aviv e in Cisgiordania e oscurato i suoi canali tv – può essere compresa (ma non giustificata) a causa della storia recente. Tuttavia, bisogna sottolineare che si inserisce in un generale clima di più o meno intolleranza rispetto alla circolazione delle idee che da Stati autoritari si sta piano piano diffondendo anche nelle democrazie liberali. È sotto gli occhi di tutti, per esempio, la guerra scatenata da Donald Trump verso le università che non vogliono sposare il suo modello culturale.

«I recenti sviluppi negli Stati Uniti sottolineano la natura precaria della libertà di espressione», si legge nel report di Pen America. «L’impatto del taglio dei finanziamenti all’Agenzia statunitense per i media globali è altrettanto significativo. Le sue trasmissioni internazionali non solo hanno svolto un ruolo fondamentale nel tenere informato il pubblico in ambienti mediatici estremamente chiusi, ma hanno anche promosso una cultura di responsabilità, contrastando la disinformazione e promuovendo la trasparenza. In un’epoca in cui l’informazione può essere sia strumentalizzata che soppressa, la possibilità di accedere a un’informazione indipendente e basata sui fatti rappresenta una difesa fondamentale contro le narrazioni controllate dallo Stato».

Per Karin Deutsch Karlekar, direttrice del programma Writers at Risk di Pen America, un catalogo di nomi non ancora incarcerati ma a rischio, «è solo questione di tempo prima che gli scrittori degli Usa che includiamo nel nostro database vengano arrestati». Il primo caso, sostiene, potrebbe essere registrato già nel corso di quest’anno. Un’eventuale peggioramento della libertà di espressione negli Stati Uniti, tra l’altro, potrebbe avere ripercussioni anche su altri Paesi. «Se stanno davvero facendo un passo indietro nel loro ruolo di difesa della libertà di espressione e di portavoce di questo tema», avvisa Karleaker, «si tratterebbe di un duro colpo per le tendenze globali e per far uscire gli scrittori dal carcere in altri paesi».

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