Giustizia

Carcere, con il lavoro la recidiva scende di oltre 10 volte

Un detenuto del carcere di Bollate, in permesso di lavoro, ha ucciso una donna e ferito gravemente un collega. Poi si è suicidato lanciandosi dal Duomo di Milano. Luciano Pantarotto (Confcooperative – Federsolidarietà): «C’è il rischio che si enfatizzi il singolo caso: il lavoro abbatte la percentuale di chi torna a commettere reati». Patrizio Gonnella (Antigone): «Mettere in discussione le misure alternative al carcere per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso»

di Ilaria Dioguardi

Era in carcere per aver ucciso una ragazza nel 2016. Emanuele De Maria, 35 anni, detenuto nel carcere di Bollate ha prima ammazzato a coltellate un’amica, poi ha ferito un collega di lavoro nell’hotel Berna, vicino alla stazione Centrale. Infine, si è ucciso gettandosi dal Duomo di Milano. L’uomo era assunto a tempo indeterminato nell’albergo, venerdì scorso non era rientrato in carcere. «Un fatto come questo comporta il rischio che si possa generalizzare e che, in nome della sicurezza, passi in secondo piano il diritto dei detenuti al lavoro», dice Luciano Pantarotto, coordinatore del tavolo “Giustizia” di Confcooperative-Federsolidarietà.

Recidiva tra il 3% e il 7% per i detenuti che lavorano

Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 21.235 i detenuti lavoranti, il 32,92% del totale dei presenti. Di coloro che hanno un impiego, solo il 15,53% (3.172) lavora con imprese e cooperative, mentre l’84,47% di chi lavora è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (dati al 31 dicembre 2024).

«Per tutte quelle persone che hanno avuto, in fase di detenzione, dei percorsi di trattamento, dai dati che sono in possesso dell’amministrazione penitenziaria, si stima una recidiva dal 3% al 7%», prosegue Pantarotto. Un abbattimento notevole, rispetto ai detenuti che non hanno seguito dei percorsi trattamentali (intesi anche come permessi premio, articolo 21, attività culturali all’interno del percorso detentivo), nelle quali si attesta intorno al 70%.

I detenuti che lavorano fuori devono avere un accompagnamento

Sul fatto che è successo a Milano, c’è un’indagine in corso «ma è di tutta evidenza che ci sono dei fallimenti. Ho letto che questa persona era stata inserita nell’ambiente di lavoro, ma senza prevedere un accompagnamento. Se così fosse, mi chiedo, se aveva un disagio psicologico chi poteva accorgersene? Con chi poteva parlare? Un detenuto che lavora all’esterno deve essere monitorato», continua Pantarotto. «Gli Uffici di esecuzione penale esterna – Uepe hanno difficoltà nel seguire il personale fuori dalle carceri, De Maria era un semilibero e doveva essere osservato. Tutti quei soggetti che non vengono accompagnati potrebbero ricadere nella reiterazione del reato. Questa persona aveva trovato lavoro, ma se non veniva seguita questa mancanza potrebbe aver influito».

Per una persona in carcere che ha un impiego all’esterno e si rende autore di reati gravissimi, durante il permesso di lavoro, ce ne sono migliaia che fanno un percorso lavorativo all’esterno, nella correttezza e con successo

Luciano Pantarotto

Il lavoro: un pezzo importante della rieducazione

«Quando penso a chi entra in un istituto di pena, mi viene sempre in mente l’immagine di un malato che fa il suo ingresso dentro l’ospedale, che è il carcere. In molti casi si riesce a fare il trattamento e funziona, in qualcuno no», dice Pantarotto. «A volte si fa il trattamento ma c’è una recidiva della “malattia” e, purtroppo, non si ha un esito positivo. Può darsi che De Maria avesse problemi relazionali che, probabilmente, durante la detenzione non sono mai stati risolti. Quando si commette un reato che può essere associato alle condizioni di vita, al contesto culturale, alle proprie patologie e dipendenze, bisogna “curare” durante la detenzione ciò che ha portato a commettere il reato. E se non viene “curata” in carcere, la persona esce peggio di prima o con i conflitti irrisolti. Il lavoro è di certo un pezzo importante della rieducazione».

Il rischio della generalizzazione

Un fatto come quello che è successo a Milano «comporta grandi rischi. In primis, la generalizzazione. Il pericolo è che, in nome della sicurezza, passi in secondo piano il diritto dei detenuti al lavoro. Per una persona in carcere che ha un impiego all’esterno e si rende autore di reati gravissimi, durante il permesso di lavoro, ce ne sono migliaia che fanno un percorso lavorativo all’esterno, nella correttezza e con successo». Pantarotto prosegue dicendo che, nei media «è stato molto enfatizzato il fatto che l’uomo fosse un evaso. Qualche fallimento non può assolutamente implicare che non si facciano percorsi lavorativi per i detenuti all’esterno, o che si possa pensare ad un provvedimento, ad una ”stretta” nei percorsi lavorativi».

Mettere in discussione le misure alternative al carcere per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza, specie se si considera che sono circa 100mila le persone che oggi stanno eseguendo una qualche misura di comunità

Patrizio Gonnella

La non misurazione della recidiva

Il lavoro abbatte moltissimo la recidiva «di cui purtroppo in Italia, a differenza di molti altri Paesi europei, non viene fatta un’analisi, una misurazione. Non ci sono dati statistici, ma stime e qualche pubblicazione. Ad esempio, uno studio fatto su qualche centinaio di detenuti in tre istituti condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo», conclude Pantarotto.

La revoca delle misure alternative al carcere per nuovi reati sono meno dell’1%

«Le misure alternative al carcere sono sicure e producono sicurezza. Sono meno dell’1% quelle che vengono revocate per la commissione di nuovi reati, mentre la recidiva è del 70% per chi sconta l’intera pena in carcere». A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. «Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza, specie se si considera che sono circa 100mila le persone che oggi stanno eseguendo una qualche misura di comunità».

Misure di comunità per 97mila persone

Al 15 marzo scorso «risultavano 97.009 le persone che stavano eseguendo una qualche misura di comunità in Italia, un numero in crescita da molti anni e senza il quale le carceri italiane sarebbero esplose da tempo», si legge nella nota di Antigone. Del totale, l’89,1% erano uomini e il restante 10,9% donne.

Nel corso del loro svolgimento queste misure possono essere revocate per una serie di motivi (la persona perde il lavoro, o resta senza casa, ma anche per comportamenti non corretti o per la commissione di nuovi reati). «La media delle revoche è stata nel 2024 del 12,6% del totale delle misure, assai più bassa, dell’8,2%, se si guarda al solo lavoro all’esterno (articolo 21 dell’ordinamento penitenziario). Dai dati più recenti disponibili risulta che la percentuale di revoche dovuta alla commissione di nuovi reati si attesta sotto l’1%», conclude Antigone, «solo una parte minoritaria di questi riguarda reati contro la persona».

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