Tutele del lavoro
Referendum e articolo 18: le implicazioni inattese per i lavoratori disabili
Uno dei quesiti referendari punta a eliminare il sistema delle tutele crescenti in caso di licenziamento, per tornare all'articolo 18. Ma per i lavoratori con disabilità la reintroduzione del vecchio sistema - pur simbolicamente importante - nella sua rigidità potrebbe determinare, anziché un ampliamento, una inattesa riduzione delle tutele. Ecco perché
di Vincenzo Falabella e Maria Paola Monaco

I prossimi 8 e 9 giugno, gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, quattro dei quali riguardano il mondo del lavoro. Tra questi, assume particolare rilievo quello relativo all’abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015, noto come Jobs Act. In caso di vittoria del “sì”, verrebbe cancellato il sistema delle tutele crescenti — applicato ai contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015 — e reintrodotto in modo generalizzato il vecchio articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori come unico meccanismo di tutela contro i licenziamenti illegittimi.
Anche ammettendo – ipotesi non da tutti condivisa – che l’abrogazione del d.lgs. 23/2015 comporti effettivamente un ripristino generalizzato dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicabile quindi anche alle assunzioni successive al 2015, è importante precisare che non si tornerebbe alla versione originaria del 1970, bensì a quella riformata dalla legge Fornero nel 2012.
Al di là del dibattito “ideologico”, il ritorno all’articolo 18 potrebbe sembrare un rafforzamento delle garanzie per i lavoratori. Tuttavia, per alcune categorie particolarmente vulnerabili, come le persone con disabilità, la reintroduzione del vecchio sistema potrebbe determinare, anziché un ampliamento, una possibile riduzione delle tutele. Il testo dell’art. 18 dello Statuto, nella sua formulazione attuale, infatti, non garantisce una tutela ripristinatoria piena ai lavoratori con disabilità, salvo che il licenziamento non venga espressamente qualificato come discriminatorio. A meno che non si affronti esplicitamente questo nodo, dunque, il referendum potrebbe portare a reintrodurre un sistema non pienamente coerente con i principi del diritto antidiscriminatorio nazionale ed europeo.
L’evoluzione dell’art. 18 comma 7 l. 300/1970 nell’interpretazione giurisprudenziale
Prima di affrontare il cuore del tema, pare necessario inquadrare il problema centrale posto dal testo dell’art. 18 novellato dalla c.d. riforma Fornero, partendo da un presupposto teorico.
Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica alla mansione è stato ed è tradizionalmente inquadrato nell’ambito del giustificato motivo oggettivo, in quanto riconducibile ad una causa legittima di recesso non imputabile al comportamento del lavoratore, ma piuttosto ad una sopravvenienza oggettiva che incide sulla possibilità di utilizzare il lavoratore “proficuamente” nell’organizzazione aziendale. Tale sistemazione teorica è consolidata nella dottrina prevalente secondo la quale l’inidoneità – in particolare quando non temporanea o non superabile con adeguamenti ragionevoli – può determinare un’interruzione del sinallagma contrattuale tale da legittimare la cessazione del rapporto. Sulla scia di questi approfondimenti teorici la giurisprudenza ha chiarito più volte come l’inidoneità, se accertata e persistente, integri una situazione obiettiva di impossibilità della prestazione lavorativa, idonea a giustificare il licenziamento ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, purché il datore di lavoro abbia previamente valutato – e dimostrato – l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con il suo stato psico-fisico. La legittimità del licenziamento, quindi, viene tradizionalmente subordinata alla verifica dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili, secondo la regola giurisprudenziale del repêchage.
Tuttavia, nelle fattispecie nelle quali la sopravvenuta inidoneità derivi da una condizione di disabilità — secondo la definizione data dalla direttiva 2000/78/CE, dal d.lgs. n. 216/2003 e dalla Convenzione ONU del 2006 — l’ordinamento impone obblighi ulteriori e più stringenti in capo al datore di lavoro. In base all’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE e all’art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. n. 216/2003, come pure all’art. 2 della l. n. 67/2006, il datore di lavoro è tenuto a valutare ed adottare accomodamenti ragionevoli, ovvero misure organizzative, tecniche o ambientali idonee a consentire al lavoratore di continuare a svolgere la propria attività, pur in presenza di limitazioni funzionali. In particolare, l’art. 3, co. 3-bis, del d.lgs. n. 216/2003 impone l’adozione degli accomodamenti ragionevoli, intesi come “misure appropriate e necessarie, che non comportino un onere sproporzionato, per consentire alla persona disabile di conservare il posto di lavoro”.
Proprio il rispetto di questo disposto normativo si concretizzerebbe in un obbligo che condiziona “a monte” l’esercizio del potere di recesso, atteggiandosi in modo del tutto peculiare. In tali casi, infatti, non si tratterebbe solo di “cercare” mansioni alternative — c.d. repêchage — ma di modificare l’organizzazione aziendale, anche in senso adattivo, al fine di mantenere il rapporto (Aimo, 2019). Il principio di intangibilità dell’assetto organizzativo, tradizionalmente garantito, viene qui ridimensionato alla luce della logica solidaristica ed inclusiva propria del diritto antidiscriminatorio. Una impostazione che, se portata alle sue estreme conseguenze, implica che l’omessa adozione di accomodamenti ragionevoli configura, secondo la direttiva e la Convenzione Onu, una discriminazione indiretta con conseguente nullità del licenziamento. In questo caso, quindi, il licenziamento non sarebbe soltanto e semplicemente ingiustificato, ma più propriamente illegittimo in quanto fondato su una violazione di norme imperative a tutela delle persone con disabilità (Donnini, 2023 relativamente ad una fattispecie che ruotava intorno al superamento del periodo di comporto).
In giurisprudenza si è ormai consolidato l’orientamento secondo cui il licenziamento di un lavoratore disabile divenuto inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni per ragioni psico-fisiche non può essere qualificato come recesso legittimo se prima non sia stata verificata – in modo serio, concreto e documentabile – la possibilità di adottare accomodamenti ragionevoli idonei a conservare il rapporto di lavoro
Accogliere questa prospettiva significa ammettere che la disabilità “riduca” il perimetro del potere datoriale di licenziamento: non è sufficiente dimostrare che non esistono mansioni compatibili, ma occorre che il datore di lavoro provi altresì che le misure di adattamento organizzativo sono effettivamente irragionevoli o sproporzionate. Alla luce di ciò si è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il licenziamento di un lavoratore disabile divenuto inidoneo allo svolgimento delle proprie mansioni per ragioni psico-fisiche non può essere qualificato come recesso legittimo se prima non sia stata verificata – in modo serio, concreto e documentabile – la possibilità di adottare accomodamenti ragionevoli idonei a conservare il rapporto di lavoro. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di attivarsi per individuare soluzioni alternative, quali lo spostamento a mansioni compatibili, modifiche delle condizioni operative, o adattamenti dell’orario di lavoro. Non è sufficiente una valutazione generica o astratta sull’impossibilità di riorganizzare l’attività produttiva essendo, invece, necessario dimostrare che gli accomodamenti ragionevoli, pur astrattamente ipotizzabili, avrebbero comportato un onere sproporzionato per l’azienda o un pregiudizio apprezzabile per gli altri lavoratori (Cass. 6497/2021; Cass. 27502/2019). È evidente, dunque, che l’inidoneità sopravvenuta non legittima automaticamente il licenziamento: essa impone al datore una condotta attiva e collaborativa, coerente con gli obblighi derivanti dall’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE e dall’art. 3, comma 3-bis del d.lgs. n. 216/2003. In questa prospettiva, ne esce un quadro di tutela ulteriormente rafforzato che implica che l’omessa valutazione degli accomodamenti configuri discriminazione indiretta per effetto della disabilità, con conseguente nullità del licenziamento e applicazione della tutela reintegratoria piena (Trib. Firenze, 150/2020).
La soluzione presentata in giurisprudenza e sostenuta anche in dottrina, però, non trova riscontro nel dettato dell’art. 18, che anzi sanziona il licenziamento per inidoneità alla mansione del lavoratore disabile solo con la tutela ripristinatoria attenuata e non spinge verso una tutela reintegratoria “piena”
Questo arricchimento dei presupposti che devono ricorrere al fine di verificare il corretto operato del datore di lavoro non lascerebbe quindi “indifferente” il sistema sanzionatorio. La soluzione presentata in giurisprudenza e sostenuta anche in dottrina, però, non trova un preciso riscontro nel dettato dell’art. 18 dello Statuto, che anzi al comma 7 sanziona il licenziamento per inidoneità alla mansione del lavoratore disabile con la tutela ripristinatoria attenuata. Per comprendere meglio il cuore del problema occorre partire nuovamente dalle conseguenze sanzionatorie ricollegate dal testo dello Statuto dei lavoratori alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo per lo stretto rapporto di parentela fra questa fattispecie e le fattispecie di cui all’art. 18 comma 7 – inidoneità, art. 2110 c.c..
In via generale, infatti, l’art. 18 della l. 300/1990 in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, distingue tra due ipotesi, affidando al giudice il compito di verificare l’effettiva consistenza del motivo addotto. La regola “ordinaria” prevede che qualora il giustificato motivo oggettivo non risulti “manifestamente insussistente” non sia possibile disporre la reintegrazione nel posto di lavoro. Se non manifestamente infondato, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determina la definitiva cessazione del rapporto ed il datore di lavoro è condannato esclusivamente al pagamento di un’indennità risarcitoria, determinata in misura compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.
L’art. 18 dello Statuto tuttavia prevede una tutela distinta e rafforzata in alcune ipotesi oggettive – in particolare, l’inidoneità e la violazione dell’art. 2110 c.c. – ammettendo in tali casi la reintegrazione – seppur attenuata – come eccezione alla regola indennitaria. La ratio della modifica risiede nell’intento del legislatore di separare, sotto il profilo sanzionatorio, le ipotesi di licenziamento per ragioni oggettive, fondate su esigenze economico-produttive dell’impresa, da quelle in cui il recesso del datore di lavoro interviene per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero in violazione dell’art. 2110 c.c., situazioni che assumono una connotazione più grave sul piano sociale e valoriale. La garanzia più incisiva proposta dal legislatore in queste ipotesi, tuttavia, non si spinge verso la tutela reintegratoria “piena” ma – rinviando all’apparato sanzionatorio del comma 4 dell’art. 18 – verso la reintegrazione “attenuata” del lavoratore.
L’interpretazione della Corte costituzionale con riferimento all’art. 2, d.lgs. 23/2015
Il quadro normativo già sufficientemente complesso si complica ulteriormente se si va a verificare quali conseguenze sanzionatorie siano ipotizzabili nei casi di licenziamento di un lavoratore disabile per inidoneità alla mansione ovvero per violazione dell’art. 2110 c.c.. A conferma della centralità attribuita alla tutela reintegratoria rafforzata nei casi di maggiore vulnerabilità del lavoratore, si deve richiama l’opera interpretativa sviluppata dalla Corte costituzionale che ha offerto un’interpretazione dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015, che sanziona con la tutela reintegratoria “forte” determinata ipotesi di nullità, coerente con i principi sottesi all’art. 18 comma 1 dello Statuto dei lavoratori (Cass. 9897/2025).
L’attenzione si rivolge in modo particolare alla sentenza della Corte Costituzionale 22/2024 nella quale i giudici della Consulta hanno affrontato la legittimità dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015, nel quale, come ricordato, si disciplinano le conseguenze sanzionatorie conseguenti ad un licenziamento nullo per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti.
Il nodo interpretativo affrontato dai giudici della Consulta si appuntava sulla limitazione dell’applicazione dell’apparato sanzionatorio – ovvero della tutela reintegratoria “forte” – ai soli casi nei quali la nullità del licenziamento fosse “espressamente” prevista dalla legge. Così come formulato il testo di legge, infatti, risultava escludere l’applicabilità della tutela reintegratoria in tutte quelle ipotesi nelle quali il licenziamento fosse stato nullo per violazione di norme imperative, qualora nella norma non fosse stata prevista espressamente la relativa sanzione. Una simile dizione – fondata sulla restrizione letterale introdotta dalla parola “espressamente” – è stata ritenuta dalla Corte costituzionale lesiva dell’art. 76 della Costituzione, in quanto eccedente i limiti della delega contenuta nella legge n. 183/2014, che invece faceva riferimento più ampio alle “ipotesi di nullità” in generale. La Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale della parola “espressamente”, affermando che la reintegrazione deve operare ogni volta che il licenziamento è nullo, anche implicitamente.
Questa pronuncia, pur non riguardando direttamente i lavoratori con disabilità, ha avuto importanti ricadute sistemiche anche in questo ambito del diritto antidiscriminatorio. Proprio sulla base di questa interpretazione, infatti, la giurisprudenza ha potuto riconoscere natura discriminatoria indiretta del licenziamento comminato al lavoratore disabile in assenza di una concreta valutazione degli accomodamenti ragionevoli e ha potuto, quindi, ricomprendere questa fattispecie nel campo di applicazione dell’art. 2 comma 1 del d.lgs. 23/2015. Le leggi di tutela alle discriminazioni per disabilità, pur prevedendo in via generale la nullità degli atti discriminatori non qualificano, infatti, espressamente come nullo il licenziamento illegittimamente fondato sulla mancata adozione degli accomodamenti.
Non è conforme a Costituzione un sistema sanzionatorio che, in caso di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, non preveda espressamente la reintegrazione, trattandosi di una violazione grave della dignità e dei diritti fondamentali della persona
A questa conclusione consente di arrivare proprio l’espansione del campo di applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015, raggiunta per il tramite della sentenza n. 22/2024: non è più necessaria una previsione espressa di nullità, perché anche situazioni come queste, implicando la violazione di norme imperative, rientrino nell’alveo della nullità e, quindi, abbiano come conseguenza sanzionatoria la tutela reintegratoria “forte”. In tal modo, viene rimossa ogni ambiguità interpretativa circa la compatibilità tra il sistema delle tutele crescenti e il diritto antidiscriminatorio, rafforzando l’effettività del divieto di discriminazione e della tutela della persona con disabilità nel rapporto di lavoro. La sentenza è stata pertanto accolta come una svolta correttiva nel disegno del Jobs Act, capace di riequilibrarne gli effetti alla luce dei principi del diritto antidiscriminatorio e del diritto del lavoro costituzionalmente orientato non potendo intendere la nullità del licenziamento in modo formalistico o restrittivo, ma piuttosto in funzione della gravità dell’offesa giuridica subita dal lavoratore.
Da ciò deriva una conclusione netta: non è conforme a Costituzione un sistema sanzionatorio che, in caso di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, non preveda espressamente la reintegrazione, trattandosi di una violazione grave della dignità e dei diritti fondamentali della persona. Il giudice del lavoro è dunque tenuto a disapplicare l’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015 nella parte in cui non consente tale esito, offrendo una protezione equivalente a quella prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nei casi di nullità del licenziamento.
Conclusione
In questi casi, quindi, sia il sistema delle tutele crescenti – per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale – sia l’articolo 18, comma 7, dello Statuto prevedono la reintegrazione del lavoratore. Tuttavia, con importanti differenze strutturali tra i due regimi.
L’art. 18, comma 7, dello Statuto – come riformato dalla legge 92/2012 – tipizza la sanzione nei casi di licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore disabile, riconoscendo una tutela reintegratoria attenuata: reintegra nel posto di lavoro, ma con risarcimento limitato a un massimo di 12 mensilità. Se non si riesce a trovare una distinzione fra campo di applicazione dell’art. 18 comma 1 e le fattispecie di cui al comma 7 il rischio e che queste fattispecie specifiche siano sempre dichiarate nulle.
Il giudice non sarebbe, quindi, vincolato a questa misura, salvo che in ipotesi qualifichi il licenziamento come discriminatorio in senso proprio, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena (Cass. 14307/2024). In questo senso di sicuro interesse l’interpretazione di chi ritiene che “non rientrerebbero, invece, nell’alveo della tutela assicurata dall’articolo 2 le ipotesi (assolutamente residuali, considerata l’ampiezza della nozione di disabilità europea) in cui il lavoratore divenga inidoneo alle mansioni contrattuali, non sia possibile collocarlo utilmente in altre mansioni, ma non sia qualificabile come disabile, nemmeno sotto il profilo del modello bio-psicosociale. Tale ipotesi dovrebbe a rigore rientrare nell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 che assicura solo la tutela indennitaria (Garofalo 2023).
Diversamente, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. 23/2015 presenta una formulazione più generale: prevede la reintegrazione solo nei casi di licenziamento nullo perché discriminatorio o per altre nullità previste dalla legge. Proprio questa apertura e la mancanza di ulteriori previsioni specifiche in merito al licenziamento che dichiari la non inidoneità del lavoratore disabile o la violazione dell’art. 2110 c.c. attraverso la sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale, ha consentito di includere nel campo della nullità ex art. 2 del d.lgs. 23/2015 anche i casi di mancato accomodamento ragionevole come forme di discriminazione indiretta.
Il sistema delle tutele crescenti ha mostrato una capacità di adattamento più flessibile, articolata e coerente con la protezione dei lavoratori in condizioni di fragilità. Il vecchio articolo 18, per quanto simbolicamente importante, rischia di risultare più rigido
È in questo spazio interpretativo che il sistema delle tutele crescenti ha mostrato una capacità di adattamento più flessibile, articolata e coerente con la protezione dei lavoratori in condizioni di fragilità. Ed è proprio qui che si pone il nodo centrale della questione referendaria: non si tratta soltanto di scegliere tra due modelli di tutela, ma di comprendere quale dei due, nella pratica, possa garantire una maggiore giustizia sostanziale.
Il vecchio articolo 18, per quanto simbolicamente importante, rischia di risultare più rigido e meno adattabile. La formulazione esplicita del comma 7 vincola il giudice a una tutela attenuata, che può essere superata solo qualificando il licenziamento come discriminatorio (ma con tutti il limiti dell’art. 112 c.p.c.). Al contrario, il Jobs Act – proprio per la sua struttura più aperta – ha consentito alla giurisprudenza di valorizzare la reintegrazione piena in casi di inidoneità non adeguatamente gestita.
Nel cuore di questo dibattito si colloca un principio fondamentale, richiamato dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Filadelfia del 1944: «il lavoro non è merce». Il lavoratore non è un oggetto regolato dalle sole logiche del mercato, ma una persona titolare di diritti inviolabili, la cui dignità va tutelata in ogni fase del rapporto, soprattutto nelle situazioni di vulnerabilità.
Questo principio assume un rilievo ancora maggiore se riferito ai lavoratori con disabilità. Considerare il lavoro come merce equivarrebbe ad accettare che chi diventa meno produttivo per ragioni di salute sia automaticamente sacrificabile. Al contrario, le normative più avanzate e le letture più sensibili della giurisprudenza affermano che la persona precede la funzione e che l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli non è solo un’esigenza etica, ma un vincolo giuridico.
In conclusione, ci si potrebbe legittimamente domandare se la reintroduzione dell’articolo 18, pur evocando un importante simbolo di tutela, sia davvero la scelta più adatta a proteggere i lavoratori con disabilità. In un contesto in cui il sistema delle tutele crescenti è stato interpretato in senso costituzionalmente orientato, offrendo già oggi una protezione efficace, tornare a un impianto più rigido potrebbe non essere la soluzione più equa. Forse la scelta più razionale è continuare a rafforzare – piuttosto che sostituire – un modello che ha già dimostrato capacità di evoluzione e attenzione alle fragilità del presente.
Vincenzo Falabella, presidente Fish e consigliere Cnel
Maria Paola Monaco, professoressa di Diritto del lavoro e della Sicurezza Sociale all’Università degli Studi di Firenze – Dipartimento di Scienze Giuridiche, delegata della Rettrice all’inclusione e diversità, Presidente Commissione di Certificazione dei rapporti di lavoro
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