Verso il referendum
In classe con Espérance Hakuzwimana: la cittadinanza va di pari passo con l’identità
Nel saggio “Tra i bianchi di scuola”, la scrittrice dà voce agli studenti e alle studentesse con background migratorio: «Uno spazio plurale che resta invisibile, fatto di diritti, radici, possibilità future. Rendendola diritto per tutti e tutte, la cittadinanza può diventare occasione di ampio respiro, di vera libertà»

«La cosa più semplice del mondo: presentarsi, fare l’appello. Alzare la mano, palesarsi, dirsi al mondo. Fremiamo tutti al pensiero. Eppure qualcuno tra di noi sa che deve anche controllare l’ansia sotterranea. Piccola, involontaria, sconosciuta». Nel bel mezzo di un’aula, la cattedra (e gli insegnanti) di fronte, i compagni seduti accanto. Espérance Hakuzwimana conduce il lettore proprio lì, Tra i bianchi di scuola. Non è un gioco di parole, è il titolo del suo ultimo libro, un saggio uscito in ottobre per Einaudi. Un viaggio a più voci nella vita quotidiana degli studenti e delle studentesse con background migratorio che frequentano e hanno frequentato la scuola italiana, una realtà multietnica che rischia di rimanere incompresa. Diritti, radici, identità e futuri possibili che spesso risultano invisibili.
Prima di questo volume, Hakuzwimana ha scritto tre libri: E poi basta – Manifesto di una donna nera italiana, Tutta intera e La banda del pianerottolo. Nel suo blog si presenta così: «Nasco in Rwanda, cresco in Italia. […] leggo di tutto, non rispondo alle chiamate e “piangere è ok” è il mio manifesto». Ha studiato all’università di Trento e poi si è trasferita a Torino, dove ha frequentato la scuola Holden.

Chi sono i ragazzi e le ragazze che prendono voce nel suo ultimo libro?
Durante le presentazioni di Tutta intera, il mio primo romanzo, al termine degli incontri succedeva spesso che gli insegnanti si fermassero a condividere pensieri e suggestioni. Raccontavano di uno scollamento tra un dentro e un fuori: l’incontro di comunità, culture e storie nelle classi e la distanza che nel mondo adulto si frappone tra chi ha un background migratorio e chi non ce l’ha. Da anni entravo nelle scuole di tutta Italia per tenere laboratori sull’identità e workshop di scrittura a studenti e studentesse. Avevo tra le mani un patrimonio incredibile di riflessioni intime e potenti attorno a concetti essenziali per le vite delle persone: appartenenza, identità, casa. Quando si è aperta con Einaudi la possibilità di scrivere un saggio per la collana Vele, ho subito pensato a quelle parole, a farle risuonare di fronte a più persone possibile.
Che cosa rappresenta la scuola?
È il primo luogo dell’incontro con l’altro, il posto protetto in cui si attiva un processo reale e tangibile di confronto con una comunità educante al di fuori delle figure di accudimento. È a scuola che ti accorgi che la tua famiglia è diversa da tutte le altre, non giusta o sbagliata, diversa. Ho voluto rimettere al centro la scuola per quella che è oggi, uno spazio multietnico che spesso passa inosservato. Assumere il punto di vista delle persone con background migratorio mi ha permesso di intercettare la generazione degli studenti di oggi ma anche quella dei miei coetanei. Giovani che negli anni Novanta e Duemila si sono sentiti soli di fronte alla discriminazione.
Sentirsi chiamare con il proprio nome significa essere visti, è l’inizio di un rapporto di fiducia e rispetto reciproco
Espérance Hakuzwimana, scrittrice
«Una volta K. si è presentato e la reazione, per una assonanza, è stata: “Ah, Carramba che sorpresa! Come la Carrà”. E non è stata l’ultima battuta infelice che ha ricevuto». Tra i bianchi di scuola si apre con un capitolo intitolato Il nome che, come scrive tra le pagine, «non è mai soltanto un nome». Che cosa rappresentano il nome e il cognome di un adulto in formazione?
Mi chiamo Espérance Hakuzwimana, è scritto sulla copertina dei miei libri. Hakuzwimana non è un cognome, è il mio nome: su 18 presentazioni, è stato pronunciato correttamente cinque. Ogni volta in cui accade mi si spezza il cuore, eppure sta lì, sopra al titolo. È un tema troppo importante per me: anni fa avevo aperto una box domande su Instagram per raccogliere le testimonianze di chi, come me, di fronte all’ennesima storpiatura, ha incominciato a sentirsi inadeguato. Tantissime e tantissimi si riconoscono nella scena dell’appello di cui scrivo all’inizio del capitolo: sono piccole crepe che si aprono, dopo cinque anni diventano voragini. Sentirsi chiamare con il proprio nome significa essere visti, è l’inizio di un rapporto di fiducia e rispetto reciproco con quella che a tutti gli effetti è una figura di riferimento. Molti insegnanti mi hanno scritto che quelle parole li hanno aiutati a condividere con i colleghi nuove strategie. Alcuni hanno aggiunto dei piccoli post-it sul registro con la pronuncia corretta dei nomi, altri hanno ricevuto lo spunto dagli stessi studenti: «La prego prof, possiamo imparare tutti a dire il suo nome?», ha chiesto una ragazza di Bologna.
La scuola è forse il primo luogo in cui i giovani con background migratorio si interfacciano con la consapevolezza di ciò che comporta non avere la cittadinanza. Nel suo saggio prova a immaginare una scuola aperta, plurale, inclusiva. Che ruolo occupa la cittadinanza nelle storie (e nei sogni) degli studenti che ha incontrato e incontra ogni giorno?
Un giorno in un piccolo paesino una bambina di origine senegalese mi ha detto: «Le persone continuano a chiedermi da dove vengo, ma io sono italiana». Quando l’incontro è terminato, si è avvicinata la sua insegnante con il cuore spezzato, dicendomi che quella bambina non sa di non avere la cittadinanza italiana. Ecco, io quell’episodio non riesco a togliermelo dalla testa. Certo che si sente italiana: come potrebbe essere altrimenti? Quella bambina, e il suo orgoglio che andrà a a sbattere contro la realtà, sono lo specchio di trent’anni di generazioni di bambini che a un certo punto hanno capito di non essere italiani.

Il suo saggio finisce con tre parole: «Potete impararci adesso». Che cosa intendeva quando le ha scritte?
Rispondo con negli occhi gli sguardi degli adolescenti che ho incontrato questa mattina in una scuola. Quelle parole sono la speranza, hanno che fare con la vulnerabilità di una generazione che ci sembra fragile, eppure in quella stessa fragilità trova la vera forza. Lascia aperto un varco per noi adulti. È lì che possiamo attivare un dialogo, iniziare a prendere consapevolezza e dare loro le risposte che meritano.
Pensa che il referendum dell’8 e 9 giugno possa essere un’occasione per muovere la società verso una riflessione su diritti, appartenenza, uguaglianza e responsabilità collettiva?
È l’inizio di un processo. Attorno al referendum vedo comunità che si stanno interrogando su un tema che da troppo tempo attendeva di essere messo al centro. Si sta rompendo la bolla e sta crescendo un’esperienza collettiva che è frutto dell’impegno di quei ragazzi che hanno saputo trasformare la rabbia in un processo di partecipazione. La cittadinanza è un concetto che va di pari passo con l’identità e l’identità è qualcosa di molto intimo e personale, ha a che fare con i nostri corpi e i nostri sogni. Rendendola diritto per tutti e tutte, la cittadinanza può diventare occasione di respiro ampissimo, di vera libertà.
In apertura, Espérance Hakuzwimana. Le immagini sono state fornite dall’intervistata
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