Salute

Disabilità gravi, la rete Dama si espande ma migliaia di pazienti sono ancora invisibili

Il progetto, partito a Milano nel 2000 per dare assistenza medica avanzata alle persone con disabilità, è diventato una buona prassi replicabile ovunque. Ma occorre un cambio di passo nell'organizzazione degli ospedali. Ce ne parla il professor Filippo Ghelma, che coordina il tavolo interministeriale. «Spesso i medici sono lasciati soli di fronte a grandi emergenze», spiega

di Luigi Alfonso

È un chirurgo molto quotato e ben noto non solo a livello nazionale, ma affronta la vita e la professione di medico con tanta ironia e leggerezza. Eppure, ciò che fa lo sottopone a un surplus di impegno di cui avrebbe potuto fare a meno. Filippo Ghelma, dal 2000, è uno dei promotori del progetto Dama (Disabled advanced medical assistance, vale a dire Assistenza medica avanzata per persone con disabilità), dedicato all’accoglienza ospedaliera per le persone con grave disabilità intellettiva e neuromotoria. Dal 2007 direttore della struttura complessa Dama dell’Asst “Santi Paolo e Carlo” di Milano, il dottor Ghelma è anche ricercatore universitario e professore aggregato di Chirurgia generale. Gli chiediamo di parlarci dell’evoluzione di questo percorso che ha finalmente trovato il sostegno dei due ministeri competenti in materia.

Il professor Filippo Ghelma con un paziente nella struttura di Milano

Dama nasce 25 anni fa nell’ospedale in cui lei lavora attualmente. È passato un quarto di secolo ma ancora c’è tanto da fare. Come procede il progetto?

Dirigo la struttura di Milano da 18 anni, prima di me lo ha fatto il mio maestro, Angelo Mantovani. Abbiamo in carico 7.200 pazienti. Da un’esperienza così isolata, un po’ fortunata e fortunosa, nata su sollecitazione delle famiglie e delle associazioni, abbiamo individuato il modello organizzativo che poi è diventato esportabile in altre realtà.

A che punto è la vostra rete nazionale?

Nel 2007 abbiamo fatto il primo “figlio”, a Mantova. Poi sono seguiti quelli di Varese e tanti altri. Sino al Covid, eravamo una ventina di centri Dama in tutta l’Italia. Con la pandemia, grazie anche a un finanziamento dell’Istituto superiore di sanità legato al Fondo per l’autismo, c’è stata un’accelerazione di molti Dama in tutto il territorio nazionale. Tra gli obiettivi vincolanti del fondo c’era l’apertura di almeno un centro Dama per regione. L’accelerazione c’è stata ma è risultata poco governata, proprio a causa dei numeri saliti vertiginosamente all’improvviso. I primi Dama li avevo presi per mano, occupandomi personalmente della formazione del personale e dell’adattamento del progetto alla realtà locale. Vederne partire così tanti insieme, ha causato problemi di controllo soprattutto per la conformità dell’utilizzo del modello e della qualità. È stato a quel punto che, alla vigilia del Covid, è nata l’Associazione per lo studio dell’assistenza medica alla persona con disabilità – Asmed.

Quali sono le sue finalità?

Coinvolge medici e infermieri che si occupano di questo ambito specifico. Al momento siamo una cinquantina, ma la prospettiva nell’immediato futuro è naturalmente quella di crescere nei numeri. Ci scambiamo le buone prassi e seguiamo una linea d’indirizzo comune. Negli anni abbiamo prodotto alcuni documenti molto importanti che definiscono le caratteristiche strutturali, organizzative e funzionali di un centro Dama, cioè la base del lavoro del tavolo interministeriale appena partito (lo scorso 24 maggio è stato presentato dai ministri per le Disabilità, Alessandra Locatelli, e della Salute, Orazio Schillaci, i quali hanno firmato il decreto che istituisce il tavolo tecnico coordinato dal dottor Ghelma, per l’adozione di un Documento programmatico di indirizzo per il progetto Dama, ndr). Dovremo avere l’abilità di renderlo fruibile da tutte le regioni. Sappiamo che ci sono territori più fortunati dal punto di vista organizzativo, ma stiamo cercando di mettere tutti nelle condizioni di avere un centro Dama. E anche più di uno, nell’ottica di rete.

il team Dama dell’Asst “Santi Paolo e Carlo” di Milano

La Lombardia resta la regione leader in questo progetto, per tanti motivi. Dove si registrano le maggiori criticità?

Preferisco parlare delle regioni che stanno facendo un grande lavoro. Spesso arrivano da me pazienti che sono stati seguiti esattamente come lo avremmo fatto nel nostro ospedale, dove c’è già un percorso alle spalle.

Quanti pazienti con disabilità sono seguiti nei centri Dama di tutto il Paese?

No, a memoria conosco giusto i dati degli ospedali di Mantova e Varese (1.600 ciascuno), che sono le realtà più grosse tra quelle vicine a Milano. Noi abbiamo 7.200 pazienti soltanto perché ci arrivano ancora da tutta l’Italia, purtroppo la situazione attuale costringe alla migrazione. Ma posso dire con certezza che sono gocce in un oceano, rispetto alle persone con disabilità. Solo nella città di Milano, i casi gravissimi sono almeno 15mila. E non considero l’hinterland.

È un sommerso gigantesco. Come si spiega?

Semplicemente, non vengono curati. Se uno non vede il problema, non cerca la soluzione. E non cura questi pazienti. È agghiacciante. Un paziente che non collabora, viene curato per un’altra cosa. Se in pronto soccorso arriva una persona con autismo che è agitata, viene fatta visitare dallo psichiatra perché è agitata. E se avesse una peritonite? Come fa una persona che non parla a far capire dove ha il dolore? Da una parte c’è una carenza culturale mostruosa, dall’altra l’incapacità di dare risposte concrete a certi problemi. Come fa un collega, lasciato solo in un sistema non organizzato, ad affrontare il problema sanitario di un ragazzo che non collabora? Lo eviterà di sicuro, ma nel frattempo si trova con un cerino in mano e si sta già scottando.

Voi però avete indicato una via alternativa.

Dama è, di fatto, un facilitatore. Ma Dama è l’ospedale San Paolo, non un gruppo di persone. E l’ospedale si è dotato di una struttura che fa da mediatore culturale e organizzatore, fa da filtro, cerca l’appropriatezza per fare di meno e farlo meglio. Non siamo un Cup, siamo piuttosto una struttura che ragiona e cerca di tradurre il bisogno che viene presentato in un percorso sanitario, utilizzando quello che c’è.

Filippo Ghelma

Organizzazione e capacità gestionale, certamente. Ma in medicina c’è anche un grande bisogno di empatia e sensibilità, se non si vuole trattare un paziente come un numero. Il suo approccio non lo si rileva in tutti i suoi colleghi che lavorano in Italia.

In realtà mi considero un becero, perché sono un chirurgo: più vicino al contadino che allo scienziato. Al di là delle battute, la medicina è fatta di professionisti molto bravi e molto seri. Se dicono di no e scappano, è perché spesso sono lasciati soli. Se una persona si trova ad affrontare un guaio come quello cui ho fatto accenno prima, la seconda volta cercherà di evitarlo. Lì occorre il cambio di passo. Lo dimostra il fatto che, nel momento in cui i colleghi capiscono che si può fare in un certo modo, sono i primi a chiederci perché non siano stati ancora coinvolti nel progetto. Ci dicono: “Lavorare con Dama è facile e bello, perché non sei solo”. Se mi trovo di fronte a un problema, individuo un referente del mio ospedale per ogni singola disciplina e cerco insieme a lui la soluzione.

Sembra una modalità talmente semplice… forse anche troppo.

Guardi, abbiamo costruito una sanità che ha un modello rigido, basato sui bisogni di un paziente standard. A tavolino abbiamo pensato come costruire i nostri ospedali, che però sono scatole rigide. Accade, perciò, che i nostri pazienti (soprattutto quelli con problemi comportamentali e disabilità intellettiva) abbiano difficoltà ad adattarsi. Noi abbiamo cercato di rendere flessibile l’ospedale di fronte a bisogni che di solito non vengono considerati.

Un tempo il problema non veniva percepito perché la maggior parte di queste persone veniva relegata in casa.

Erano invisibili, e in parte lo sono ancora. Perché non li studiamo. Io stesso sarei scappato lontano anni luce, se il mio maestro non mi avesse detto che dovevamo occuparci di Paolo, il nostro primo paziente.

Avrebbe perso una bella occasione, da un punto di vista umano e professionale.

Certamente. Oggi sarei un mezzo medico, se non fossi capace di curare un pezzo della popolazione dei miei pazienti. O vogliamo dare la colpa ai nostri pazienti se noi non siamo capaci di curarli?

Lei fa molto spesso riferimento al periodo della pandemia.

Perché con il Covid ci siamo trovati davvero a mal partito. Non era previsto. Con la flessibilità, siamo riusciti a venirne fuori, nonostante tutto. Però, per le persone con disabilità, tutte le maxi emergenze sono davvero un grande problema: perché la gestione delle emergenze prevede una semplificazione, cioè una riduzione della flessibilità. E questo va a discapito dei più fragili. Nel prossimo futuro lavoreremo per individuare dei protocolli per queste persone, in caso di maxi emergenze. L’ultima volta che ci siamo trovati di fronte a questo problema è stata in occasione dell’alluvione in Emilia-Romagna. Ora è fondamentale creare una rete e promuovere tanta cultura, i risultati arriveranno di sicuro. Le ultime reti regionali, come quelle nate in Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna, stanno promettendo davvero bene.

I risultati dipendono più dalle Regioni, dai dirigenti sanitari e ospedalieri, dai singoli operatori?

Dobbiamo essere tutti d’accordo, sennò non si va da nessuna parte. Una cosa calata dall’alto, non serve a nulla. E se arriva solo dal basso e la direzione non è d’accordo, non approda a niente. Serve una risposta corale. Nella nostra struttura, ognuno di noi si rivolge all’altro, dicendo: “Dimmi come posso aiutarti”. E lo stesso va fatto con le famiglie, le quali devono farci capire che cosa va nel loro congiunto. L’80 per cento di questa attenzione va però riposta nei medici e negli infermieri, così non scapperanno. Se invece cerco di riversare su di loro una patata bollente, come possono reagire?

Insomma, Italia ancora a macchia di leopardo pure sul fronte Dama. Il passaggio cruciale quale sarà?

Il documento che verrà prodotto dal tavolo interministeriale, dovrà giungere alla Conferenza Stato-Regioni e mettere poi tutti gli enti locali nelle condizioni di realizzare qualcosa che è facile da realizzare. Hanno già tutto, non devono inventarsi nuovi ospedali: devono solo farli funzionare in modo diverso. Se vengono portate esperienze vincenti sperimentate in strutture grandi, medie e piccole, difficilmente qualcuno potrà tirarsi indietro perché capirà che può farcela. È davvero la scoperta dell’acqua calda. Siamo abituati ad andare avanti per automatismi, quando invece è importante metterci la testa ancor prima che il cuore.

Ci racconti un episodio che l’ha colpita particolarmente in questo percorso.

Eh, ne potrei raccontare tantissimi… Ho in mente alcuni nomi e alcune facce, ma la cosa che mi sorprende sempre è che, quando si ha di fronte una persona che non parla, noi pensiamo che capisca molto meno di quanto ci sembra che capisce. Invece poi ti rendi conto che ha il suo modo di dirti grazie e ti riconosce, oppure vedi il sorriso di una persona che un tempo hai curato senza sapere se stessi facendo bene oppure soltanto accanimento terapeutico. In questi casi mi chiedo sempre: chi sono io per negare la felicità a questa persona? Perché la loro qualità di vita non dev’essere vissuta? Quando ti rendi conto che c’è qualcosa in più di quello che traspare da una crosta superficiale, è sempre emozionante e coinvolgente.

Filippo Ghelma riceve l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana

Un’emozione pari a quella provata lo scorso 2 giugno in occasione dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica ricevuta alla prefettura di Milano.

Mi sono chiesto che cosa avessi fatto per ricevere tanta attenzione. Sinceramente, credo di aver fatto la cosa giusta da fare. Punto. Mi ha segnalato una Fondazione di Treviso, proponendomi con una lettera che hanno poi fatto leggere e che mi ha fatto piangere… Ma lo prendo come un riconoscimento del lavoro che io e i miei colleghi stiamo portando avanti in tutta l’Italia. Mi sto spendendo in questa cosa, un impegno che mi consuma, ma è una cosa che va fatta. E vado avanti.

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