Cure palliative

È tempo di curarsi del bisogno di spiritualità del malato (e del medico)

Di fronte a una malattia inguaribile, prestare attenzione alla dimensione interiore del paziente è cruciale, fin dal momento della diagnosi. Lo è anche per il personale sanitario che convive con la sofferenza. La consapevolezza dell'importanza di dare un senso alla vita, alla malattia e alla morte, temi ancora tabù, è sempre più diffusa. Ne abbiamo parlato con Laura Campanello, consulente pedagogica e assistente spirituale

di Nicla Panciera

La ricerca di un significato della vita, la cura della propria dimensione interiore fatta di affetti, di valori e di credenze, la gestione delle difficoltà emotive sono tutti aspetti cruciali per il malato e tutta la famiglia, in particolare nei momenti più complicati, come nella malattia inguaribile e nel fine vita. Ma sono temi cruciali anche per gli operatori sanitari che ogni giorno vivono accanto alla sofferenza altrui.

La rilevanza della cura spirituale nell’ambito delle cure palliative e nelle professioni di cura in generale si è parlato in occasione di un incontro organizzato a Vidas sulle cure palliative pediatriche. Secondo le indicazioni delle principali società scientifiche di cure palliative, la spiritualità deva entrare nel lavoro clinico, aggiungendosi e non sostituendosi al supporto psicologico, anch’esso importantissimo, in particolare in alcune fasi della malattia, quando diventa spesso più forte il bisogno di dare un senso alla vita, alla malattia, alla morte.

L’apertura all’altro

La figura competente nel riconoscere e rispondere a questi bisogni del paziente e del team che lo ha in carico è l’assistente spirituale. «Lavorare nelle cure palliative pediatriche significa dover fare tutti i giorni i conti con la sofferenza e ciò trasforma il modo di vedere sé e il mondo. Per questo occuparsi di cure palliative non è per tutti» spiega Laura Campanello, filosofa, consulente pedagogica, assistente spirituale e fondatrice con Romano Màdera della Scuola Superiore di Pratiche filosofiche Philo, oltre che presidente di Sabof (Società di analisi biografica ad orientamento filosofico (Abof). Non si tratta di forza del carattere, puntualizza la specialista: «Piuttosto è una questione di apertura, di plasticità e di sensibilità a un processo continuo di trasformazione di sé, che non si interrompe mai. Le persone, le loro vicende e i loro valori sono sempre diversi. Siamo tutti in viaggio, lungo un percorso ondivago fatto di inciampi, fatiche e contraddizioni».

Laura Campanello

Il tempo (non) perso

L’apertura e l’ascolto sono gli ingredienti base in una relazione di cura. Eppure, «spesso, ancora si sente dire Non perder tempo! Non c’è tempo da perdere! come se la dimensione del dialogo col paziente fosse una dimensione sempre un po’ residuale e le cose importanti fossero principalmente quelle legate al corpo, alla cura, all’organizzazione del lavoro» aggiunge Campanello. «Occuparsi della persona a 360 gradi non è affatto perdere tempo, come non lo è fermarsi a parlare con un paziente; al contrario, è lasciare emergere dalla relazione il senso della cura, la direzione da prendere». Spesso e volentieri, poi, l’attenzione alla dimensione spirituale del paziente «compare quando si arriva al capolinea, invece bisognerebbe iniziare prima, fin dalla diagnosi che è il primo grande spartiacque in cui il senso della nostra esistenza, quello che davamo per scontato, si è interrotto».

Fermarsi e parlare con un paziente non è perdere tempo. Al contrario, è lasciar emergere dalla relazione il senso della cura e la sua direzione

Laura Campanello

Il tempo per sé

Spesso si attribuisce al lavorare in team la ragione del minor tasso di burn out nei palliativisti rispetto agli altri specialisti. Tuttavia, l’attenzione alla dimensione spirituale – quando c’è – è orientata al paziente prima ancora che al personale di cura. «Il tempo per sé è importante e chi lavora a contatto costante con la sofferenza dell’altro ha una maggior necessità di un tempo privato che dia sollievo, conforto e ristoro» spiega Campanello. «Ognuno trovi la sua porta, che può essere una confessione, un ideale, gli affetti, la natura. Questo vale per chiunque, ma nell’ambito delle cure palliative è ancor più importante, perché contemplare costantemente la morte e la vita sollecita domande di senso di cui non è possibile non occuparsi». E questo alla lunga può pesare.

Una scelta esistenziale

Pur con una certa cautela, perché termine a rischio di fraintendimento, si potrebbe quindi parlare di «vocazione». Spiega meglio Campanello: «È quella disponibilità, forse anche in parte una necessità personale, di rimanere al cospetto della vita che pulsa e che chiede senso in maniera profonda. Come dice Romano Màdera della Scuola Superiore di Pratiche filosofiche Philo, davanti all’esistenza io ci voglio stare a occhi e cuore aperti». Sapendo sempre ben distinguere, in quanto sanitari, il nostro proprio valore personale che ci guida, fatto della nostra biografia, magari proprio in relazione alla sofferenza, delle nostre credenze e dei nostri valori, dal diritto all’autodeterminazione del paziente».

Vocazione è disponibilità, è rimanere al cospetto della vita che chiede senso in maniera profonda e stare a occhi e cuore aperti

Laura Campanello

Il tempo della risonanza e onestà

Bisogna sempre tenere a mente, conclude Campanella, che «noi risuoniamo con le sofferenze degli altri, non ne siamo esenti, è quindi fondamentale non inserire il pilota automatico, ma trovare un tempo riflessivo e onesto, e io credo che questi due aggettivi siano importanti, in cui capire cosa provoca in me la sofferenza di chi è davanti a me». Infatti, una delle grandi difficoltà del prendersi cura di chi soffre e di chi ha una malattia inguaribile è che riconosciamo nell’altro la nostra stessa possibilità, quando non le esperienze della nostra esistenza. «Noi non siamo esenti dalla sofferenza, non siamo esenti dalla ferita, non siamo esenti dalla vulnerabilità perché fa parte dell’umano».

Il senso dell’esistenza

Ecco che prendersi cura della propria dimensione spirituale porta ad «accettare che l’esistenza è per sua natura vulnerabile, che la sofferenza fa parte dell’esistenza e ci interroga costantemente sul senso della vita e della morte, ma ci aiuta anche a rimanere in apertura dell’altro, col quale c’è una interdipendenza profonda, e a riconoscere la bellezza dell’esistenza e della natura, la sua potenza e la sua fragilità che sta nella possibilità di essere ferita» conclude Campanello. «La situazione si fa più urgente e feroce in ambito pediatrico, dove si deve accettare con lucidità quello che mettiamo tra gli inaccettabili. La domanda è sempre quella, perché si vive e perché si muore, e ciascuno, nel tentativo di trovare delle risposte, nel frattempo vive, lavora e si prende cura degli altri. Nel dare cura e nel prendersi cura forse si trova davvero il senso dell’esistenza».

La speranza

Infine, un appello a non svuotare il significato delle parole. Un esempio emblematico è quello della speranza, «considerata spesso sinonimo di illusione. Pensiamo alla frase Non bisogna togliere la speranza ai pazienti: il rischio è che questo diventi l’alibi per non entrare mai in una relazione autentica. La speranza, infatti, non è solo quella della guarigione, è anche quella di vivere il più a lungo possibile, di un sorriso, di un momento significativo, di trovare un’equipe che non mi abbandona e poi c’è la speranza della dignità e del non provare dolore. C’è una vita che può convivere con quella sofferenza e allora la speranza la dobbiamo lasciar declinare e esprimere, perché come dice il filosofo Salvatore Natoli “La speranza è il ponte tra il qui e il non ancora”, è intima alla paura e dobbiamo riuscire a stare in quella paura e, al contempo, saper avere una visione di possibilità di futuro o di un presente differenti».

La speranza non è illusione; è il ponte tra il qui e il non ancora, è intima alla paura ma regala una visione di futuro differente

Laura Campanello

Foto di Ekaterina Kuznetsova su Unsplash

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